Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  marzo 16 Sabato calendario

Riccardo Tisci: Amo i giovani ribelli ma vesto i gentlemen

Riccardo Tisci, stilista, è nato a Taranto.
Lo scorso 17 febbraio alla sfilata di Burberry per il prossimo autunno/ inverno, organizzata alla Tate Modern, nel backstage c’era il panico: una manifestazione improvvisata messa in atto da centinaia di studenti aveva bloccato diverse strade del centro di Londra. Quindi, ritardo e diversi posti rimasti vuoti a causa del traffico: un peccato, visto che si trattava di uno dei momenti di punta della fashion week inglese. L’unico a mantenere la calma è stato proprio chi, in teoria, avrebbe dovuto essere il più preoccupato: stiamo parlando di Riccardo Tisci, 44 anni, nato a Taranto e cresciuto a Lodi, direttore creativo del marchio inglese e alla seconda prova in passerella. Avrebbe dovuto. E invece: «Ben vengano i giovani che protestano, che si fanno sentire, che lottano. Io me lo ricordo com’era qui negli anni Novanta, quando la gioventù non era anestetizzata, quando ci si ribellava e si urlava la propria rabbia». Parla con cognizione di causa Tisci, perché questa è la sua seconda vita londinese: la prima è stata più di 20 anni fa, quando era arrivato per studiare alla Central Saint Martins – la più prestigiosa scuola di moda del mondo – grazie a una borsa di studio statale. «Una rarità per uno straniero: mi pagavano i corsi e la casa, senza non avrei potuto fare nulla. Forse ho accettato il lavoro da Burberry anche per” ripagare” il bene che questo Paese m’ha fatto». Al di là dell’affetto per la città e tutto ciò che rappresenta, a riportare Tisci a Londra è stato quello che lui chiama un” padre putativo”, Marco Gobbetti, già responsabile nel 2005 della sua ascesa da Givenchy: la prima cosa che ha fatto come ad del brand è stata offrigli il ruolo che ricopre oggi. E Tisci, che si stava godendo un periodo sabbatico, non ha saputo dire di no. «Erano 15 anni che non mi fermavo: quando nel 2017 ho lasciato Givenchy ho capito che dovevo prendermi una pausa, stare con mia madre, viaggiare, passare le giornate guardando serie su Netflix. Ne avevo bisogno, anche a costo di rifiutare le offerte che intanto mi sono arrivate. E poi, erano tutte sulla falsariga della mia esperienza da Givenchy. Che senso ha rifare qualcosa che ti sei lasciato alle spalle?». Con Burberry però è diverso: non è moda, ma un modo di essere. «È alla base del loro lifestyle: qui quando ti laurei ti regalano un trench, mica un orologio». È da questa consapevolezza che nasce la sua visione. Anzi, visioni, perché Tisci lo scorso settembre debutta in passerella non con una sola collezione, e nemmeno con due ( unendo uomo e donna come fanno tanti). Lui ne presenta quattro, cento e passa look divisi in due linee menswear e due womenswear, ciascuna diretta a un pubblico preciso: da una parte i più giovani, legati al linguaggio della strada, e dall’altra gli “adulti”, attirati dal classico senza tempo. «Non sono stato il primo a lavorare su lusso e streetwear», riflette lui oggi, «però da Givenchy ho perfezionato il metodo». Un doppio binario essenziale per il mercato d’oggi. «Con la massa di informazioni che passa attraverso questi», aggiunge indicando il suo smartphone, «basta un attimo a perdere l’attenzione del pubblico. Non si può pensare di offrire un solo tipo di prodotto che piaccia a tutti: si devono diversificare produzione e linguaggio in base agli interlocutori, pena l’indifferenza». L’unico argomento su cui Tisci pare restio a esprimersi è la Brexit: troppo delicato il tema, si giustifica, anche se poi finisce comunque per dire la sua. «Certo, si percepisce tutta la tensione che quest’incertezza sta provocando. Ma gli inglesi se la sanno cavare, una soluzione la troveranno di sicuro. Piuttosto, se di problema si deve parlare, allora a preoccuparmi è la mancanza di una nuova generazione di creativi con la voglia di sperimentare e osare. Tutti oggi si mettono sulla scia degli altri, senza cercare un approccio proprio: ai miei tempi quando usavi il codice di un altro designer ti massacravano, oggi invece è la norma. Così però non nascono i grandi: dove sono gli Helmut Lang, gli Hedi Slimane, gli Azzedine Alaïa contemporanei? Io non ne vedo. E questo sì che è un problema».