Lei è stato un grande innovatore, i suoi difensori hanno sempre segnato più di tutti, ma qualcuno ancora oggi la giudica un difensivista: perché?
«Credo sia una domanda da fare a quei giornalisti che continuano a catalogarmi così. Uno stereotipo trito e ritrito e per di più molto superficiale. Come allenatore ho sempre cercato l’equilibrio con la E maiuscola e il gioco che si adattasse meglio agli uomini che avevo a disposizione. Juve, Inter, Bayern, Salisburgo, sono squadre in cui sono riuscito a concludere il campionato con il miglior attacco e la miglior difesa. Ho prediletto un gioco concreto, orientato al risultato, privo di fronzoli non necessari».
Lei ha giocato e allenato e vinto ovunque, ma vorrei chiederle una "definizione del cuore" per Milan, Juventus e Inter.
«Milan: la prima famiglia, il club che mi ha fatto realizzare il mio sogno. Senza Milan la mia storia sarebbe stata indubbiamente differente. Juve: la lunga storia d’amore, un gruppo eccezionale che mi ha permesso di affermarmi come allenatore. Inter: una inarrestabile emozione, la squadra con cui cimentarmi per capire se i miei successi fossero legati soltanto alla Juve. Facendo un paragone con la vita, il Milan è stato l’adolescenza, la Juve il matrimonio, l’Inter il cambiamento della mezza età».
C’è una partita che vorrebbe rigiocare? E come?
«Nessuna, sa perché? Non so come si sarebbe sviluppata la mia carriera se qualcosa fosse andato diversamente. Ho commesso errori, non li rimpiango: sono stati fra i migliori insegnamenti che io abbia mai ricevuto. Mi ritengo già così estremamente fortunato».
Le ha dato più dolore Magath, giustiziere della Juve nella finale di Coppa Campioni ’83 con l’Amburgo, o Byron Moreno, l’arbitro di Italia-Corea del Sud?
«Decisamente Moreno. Perché quello che è accaduto al Mondiale 2002 ha avuto origine dall’arbitro e non dall’avversario. E dall’arbitro ci si aspetta un comportamento super partes. Lui ha commesso una grande ingiustizia e ha colpito tutta l’Italia. Ecco, ci ripenso: se proprio dovesse esserci una partita che rigiocherei, sarebbe Italia-Corea. Per avere un arbitro diverso».
Il calcio può ancora esprimere qualcosa di nuovo?
«Il calcio è uno di quei classici che non tramontano mai, un po’ come i libri e la musica. Bisogna vedere come vengono interpretati con la tecnologia e le conoscenze del presente. Oggi ognuno ha accesso ad un’infinità di informazioni, di dati. Limitarsi a raccoglierli e catalogarli non è minimamente sufficiente. La grande sfida del futuro sta nell’interpretazione e valorizzazione di queste conoscenze».
C’è qualcosa nel calcio di oggi che le piace poco e qualcosa che le piace più di prima?
«Sono molto preoccupato per la perdita progressiva dei valori educativi che il calcio sapeva trasmettere. Un’altra cosa che mi rattrista fortemente è il persistere della violenza fra tifoserie. Bisognerebbe prendere lezioni dal rugby. Viceversa, mi allieta la crescente inclusione e partecipazione delle donne in questo sport. È decisamente giunto il momento di andare oltre le barriere di genere».
Una delle migliori nazionali azzurre di sempre, da Argentina ’78 a Spagna ’82, ha avuto fortemente l’impronta di Trapattoni e di quella sua Juventus: cosa aveva di speciale quella squadra?
«Non era solo una squadra, ma un gruppo eccezionale, affiatato, che aveva trovato il suo equilibrio strutturale dentro e fuori dal campo. Ognuno era complementare ai suoi compagni.
Ma il merito non lo reputo assolutamente come mio, è di Enzo Bearzot, l’uomo che è riuscito ad unire alla perfezione quel gruppo, come fosse una famiglia, infischiandosene delle critiche».
Qual è la cosa più bella che i suoi occhi abbiano visto in una vita di calcio?
«Il calcio che quando vuole sa essere lo strumento più semplice e potente per unire i giovani di tutto il mondo, oltre i confini, oltre la povertà, oltre i conflitti e le divergenze politiche».
Ottanta è un numero grande e rotondo. Cosa significa?
«I ricordi sono tanti e ormai devo ammettere che iniziano a confondersi fra di loro. Alcune volte è come se mi chiamassero e mi incitassero a guardare indietro, a soffermarmi nel passato per riviverli. Mi succede spesso nei sogni, dove mi ritrovo in mezzo allo stadio come giocatore o allenatore. Io però considerò queste memorie come parte esclusiva del passato: sono importanti ma non devono delimitare la vita nel presente e nel futuro. Ed è per questo che oggi, quando mi guardo indietro, vedo la bellezza di un quadro nel suo complesso. Nessun rimpianto o rammarico. Ogni particolare ha contribuito al risultato finale sulla tela. Non potevo sperare di meglio e mi considero molto fortunato per il mio percorso di calciatore, allenatore, uomo, marito, padre e nonno. Sono credente, ringrazio Dio per questa vita che mi ha donato. Per la partita che mi resta da giocare io non me la sento di chiedere proprio niente. Ho già avuto tantissimo. Diciamo che è come se i due tempi regolamentari si fossero conclusi. Ora inizia il golden goal e sicuramente non sono uno che si arrende».