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 2019  marzo 15 Venerdì calendario

«Schadenfreude». Tradotto: la vendetta del grande rosicone

È fuori e dentro di noi, gemella nera dell’empatia, cugina dell’invidia e della competizione, vicina di casa dell’istinto tribale che va riemergendo in una società sempre più sminuita e incattivita. Per quel poco che si riesce a esprimere delle passioni dell’anima, è qualcosa — uno stato, uno spasmo, un soffio — che esalta, ma anche spaventa, dà sollievo e insieme sporca, procura euforia e senso di colpa. Nell’atlante geografico delle emozioni la precisione lessicale tedesca le ha dato nome Schadenfreude, parola composta che designa la gioia (“Freude”) per la disgrazia (“Schaden”) altrui. Ma senza dubbio si tratta di un sentimento universale che fa parte della natura umana. Nel suo crudo, acuto e divertente, Schadenfreude, appunto, (Utet) Tiffany Watt Smith prova a tradurla in italiano con “malevolenza”, anche se nell’estenuato teatrino domestico è irresistibile la tentazione di declinarla a partire dal verbo “rosicare”, donde la Grande Rosicata di cui l’Italia si è fatta oggi patria, tempio, teatro e rifugio. Di tutto questo il più recente campione rosicone può considerarsi il senatore grillino Giarrusso che con allegra esuberanza in una sede istituzionale si è esibito nel gesto plateale delle manette. Celebrava in tal modo l’arresto di babbo e mamma Renzi, giubilante alfiere di quanti in cuor loro avevano esultato dinanzi alla foto del papà dell’ex premier che, ai domiciliari, fumava il sigaro sul terrazzo.

Ma quanti poco dopo hanno assaporato il più sordido piacere allorché il Celeste Formigoni, che nelle ore liete del potere si disegnava le giacche color aragosta, ha imboccato la via della galera? E quanti, ancora, hanno felicemente condiviso il video aeroportuale nazional populista sull’assassino Battisti finalmente in manette o quell’altro del comune di Roma con la ruspa che con adeguata colonna sonora abbatteva povere baracche di un accampamento rom? La pacchia, del resto, è finita, e anche se nella realtà l’asserzione è dubbia, non c’è slogan né brand più adatto a stimolare un compiacimento così subdolo da proporsi addirittura come una civica variante di Schadenfreude. Così, se per molti tifosi interisti o laziali la vittoria della propria squadra non vale nemmeno la metà della gioia gufata per la sconfitta del Milan o della Roma, nel paese della commedia e del melodramma le disdette, i fallimenti e le sventure fanno davvero molto presto a diventare spettacolo di eccitato intrattenimento. Vedi i "famosi" dell’isola che tra fame e zanzare non resistono, si ammalano, tornano a casa; vedi gli autoreclusi del Grande Fratello fatti cornuti, e "ben gli sta!"; vedi certi poveri aspiranti chef maltrattati da Bastianich e Cannavacciuolo, che manca poco gli sputino nel piatto. Nelle cronache come negli spettacoli l’oscura malignità della Schadenfreude afferra e punisce ogni giorno una quantità di "colpevoli" per il compiacimento di enormi platee: dalle vittime degli agguati delle Iene ai degradati del tapiro, dal flop di Celentano ai video amatoriali delle feste di matrimonio andate a male, è tutto uno sciogliersi liberatorio di fronte alla figuraccia, pure detta "epic fail", non di rado determinata da "shit storm", o tempesta di merda, con rispetto parlando. Eppure ridere delle umiliazioni rientra a pieno titolo nei codici della vita, quindi anche dell’arte.
Molto inglese e molto simpatica, l’autrice s’inoltra citando Hobbes, Locke, Nietzsche, le teorie sul riso di Bergson; ma ha pure incontrato diversi psicologi e neuroscienziati per scrivere un libro onesto e assai ben riuscito anche nella sua dimensione lievemente autobiografica; un saggio per certi versi delizioso, con fior di bibliografia e uno strepitoso indice analogico che rinvia a spassosi incidenti legati a diete, divorzi, vetri rotti, pozzanghere, fino alle “scorregge e affini” (proprio così).
Eppure è soprattutto un libro che, rapportato alle cronache dell’Italia di oggi, mette a disagio e fa male. Perché fin troppo e amaramente si ride in questa Italia «che non sta in pace con sé stessa», secondo il capo della Cei cardinale Bassetti; un Italia dove «la gente vive per vedere le disgrazie altrui», come l’ha sperimentata sulla sua pelle Fausto Brizzi dopo il dramma del #MeToo.
E ben al di là del garantismo o del giustizialismo, questa inesorabile malattia dell’anima sembra fiorire in un paese che «ha fatto del rancore la sua cifra politica», per dirla con Giuseppe De Rita, sicché la recente storia può rileggersi come unico e perenne gongolamento a spese di un potere comunque destinato a finire nella polvere e nel fango: la caduta di Craxi, la disfatta democristiana, la nemesi di Di Pietro, la rotta dell’altezzoso D’Alema, gli scandalacci di Berlusconi, il tonfo di Monti, il disastro autoreferendario di Renzi. Più difficile stabilire perché la Grande Rosicata sia divenuta una chiave indispensabile per comprendere questo tempo.
Per cui si può ipotizzare che la scomparsa delle culture politiche ha portato a concepire la vita pubblica a partire da impulsi psicologici, soggettivi, sentimentali; mentre le forme e i linguaggi si sono modellati sul manicheisimo del tifo e la crudeltà del gossip.
L’immaturità tardo-adolescenziale dei nuovi arrivati, che del rancore hanno fatto una leva di consenso, non ha certo aiutato; e l’uso compulsivo dei social ci ha messo infine il carico da undici, per cui «è come vivere portandosi dietro una bombola d’ossigeno vuota — ha scritto Franco Arminio — non c’è aria in rete, solo un traffico di ombre». Intanto alla Borsa delle risate malefiche sale l’indice della casa negata a Mamma Traversa, degli abusi di babbo Di Maio, dei debiti di babbo Dibba; e sempre ci sono degli scontrini di cui vergognarsi, e vitalizi felicemente sottratti, a parte la cellulite di Boschi, le peripezie amorose di Sarti, le disavventure del Trota o di Titti Brunetta. Chi scommette sullo spread, chi gioisce della Isoardi.
Salvo poi scoprire che non solo la Rosicata è arida, sterile e incapace di determinare cambiamenti, ma all’ennesima uniforme di Salvini "indagato fra gli indagati" o gaffe di Giggino che ha sbagliato l’ennesimo congiuntivo, si finisce per incontrare la noia, e dietro questa noia si intravede il nulla.
Così forse c’è ancora un tempo per riservarsi, in coda, nientemeno che un alito di misericordia. Magari anche solo per riconoscere l’ombra dellaSchadenfreude, farci pace e perfino amicizia, tenerla a bada, fuori e dentro di noi.