Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  marzo 15 Venerdì calendario

La resa dell’Isis nell’ultima trincea di Baghuz

BAGHUZ (SIRIA) Pallidi e smagriti, i foreign fighters escono allo scoperto con le braccia alzate, percorrendo lentamente un sentiero stretto e polveroso. Arrivano poi le loro donne, cariche di borse e valigie, circondate da bambini sporchi e scarmigliati. Più che le bombe, che pure piovono abbondanti da oltre una settimana, è la fame a sconfiggere gli irriducibili dello Stato islamico, ormai trincerati a Baghuz, un malconcio accampamento lungo la riva siriana dell’Eufrate. Assisto alla resa dal tetto di una casa bombardata, a un po’ più di un chilometro da lì, dove sono stato parcheggiato assieme ad altri giornalisti dalle Forze democratiche siriane (Fds), l’alleanza curdo-araba sostenuta dagli Stati Uniti che assedia l’ultima trincea jihadista. Ieri si sono arresi in duecento, due giorni fa tre volte tanti, tremila da lunedì scorso e ventimila nelle ultime due settimane. Molti sono francesi, ceceni e arabi, sfiancati dal diluvio di missili sganciati dai caccia statunitensi, e, soprattutto, affamati.
Finisce così, con i crampi allo stomaco, il glorioso sogno del moderno Califfato, la cui nascita fu solennemente proclamata da Abu Bakr al-Baghdadi nella grande moschea di Mosul nel giugno 2014, tre anni dopo l’inizio del conflitto in Siria. Dopo aver conquistato ampie porzioni della Siria e dell’Iraq, imposto le sue leggi brutali a otto milioni di persone e guadagnato miliardi di dollari con rapimenti, furti e sfruttamento del petrolio nelle regioni di conquista, l’Isis s’è adesso ridotto a un fazzoletto di terra di un paio di chilometri quadrati. Piena di tende, di automobili e d’immondizie, Baghuz evoca una città distopica.
«Tra poche ore o pochi giorni non avranno neanche più quella», spiega Ali Saoud, giovane ufficiale delle Fds, la barba ben curata, alto e snello nella sua uniforme beige. «La presenza dei civili ha ritardato l’assalto finale, ma ormai dovrebbero restare solo combattenti. La riconquista di Baghuz è anche rallentata dai kamikaze, che sono l’ultimo asso della loro controffensiva. Ma i nostri cecchini non sbagliano un colpo e ne hanno appena colpiti quindici. Ci sono poi centinaia di ordigni piazzati un po’ ovunque, e i tunnel scavati sotto il villaggio, dove si nascondono i vertici dell’organizzazione terroristica. Detto questo, sono ormai allo stremo delle forze e non resisteranno a lungo».
Ali racconta che i bombardamenti più intensi avvengono di notte. E che lui rimane sveglio per assistervi, godendo come fossero fuochi d’artificio. Originario di un villaggio vicino a Deir Ezzor, un centinaio di chilometri a nord-ovest da qui, prima di arruolarsi nelle Fds ha visto uccidere suo padre e i suoi due fratelli dai tagliagole dell’Isis.Come la maggior parte dei suoi commilitoni curdi, anche lui ha sete di vendetta, e non soltanto per onorare i suoi martiri, ma anche le combattenti stuprate e decapitate, i contadini crocefissi e filmati dai registi della propaganda islamista, i villaggi dati alle fiamme e le città distrutte dall’artiglieria pesante. Ad alimentare la rivalsa curda c’è l’indebita appropriazione da parte del Califfo, dopo essersi insediato nella regione nell’agosto 2014, di tutti i proventi del petrolio locale. Dice ancora Ali: «Quando ho ucciso il mio primo jihadista mi sono sentito finalmente più sereno». D’improvviso, in cielo si ode il fragore di un jet. Poco dopo, un razzo esplode nel centro di Baghuz. Ancora pochi secondi, e un auto-parlante comincia a recitare parole in arabo, che si confondono con l’invito alla preghiera del muezzin. «No, è soltanto una richiesta di sangue per eventuali feriti. La registrazione parte dopo ogni deflagrazione, in automatico».
Il giovane ufficiale non prova nessuna pietà per un gruppo di prigionieri feriti, stesi sull’erba verdastra cresciuta su questo deserto petroso con le piogge delle ultime settimane. Sono una dozzina, alcuni dei quali piuttosto malconci. Appena ci avviciniamo, con Ali veniamo investiti dall’odore pungente di ferite purulente. Uno di loro, con una gamba fasciata di garze sporche, dice di essere francese e di chiamarsi Frank Abdel Moussah. Indossa una kefiah e un giubbotto di pelle. Gli chiedo per prima cosa che cosa s’è fatto. «Quattro giorni fa sono stato ferito dalla scheggia d’una granata, ma nell’unico ospedale rimasto aperto a Baghuz hanno altro a cui pensare, quindi il taglio s’è infettato. Sono stato costretto dai miei capi ad arrendermi, io avrei voluto combattere fino alla fine. Ma se è questa la strada che Dio ha voluto per me, va bene così. Lo Stato islamico rinascerà altrove, magari tra cent’anni, e trionferà sul resto del mondo». Quindi nessun rimorso?. «Ricomincerei domani. Lo Stato islamico ha provato a governare le sue città seguendo il Corano, nulla di più. Sono stati forse compiuti alcuni errori. Ma chi non ne fa? Di certo non le potenze occidentali, che con le loro bombe ammazzano i bambini». Quando traduco in inglese ad Ali, i suoi occhi s’accendono d’ira. «Gli chieda piuttosto dei cinquemila curdi che hanno barbaramente trucidato», ringhia l’ufficiale.Nel primo pomeriggio, la quarantina di giornalisti provenienti dall’intero pianeta viene convogliata verso il campo petrolifero di Al Omar, che dista tre ore di macchina. Per motivi di sicurezza. Infatti, le Fds temono le “cellule dormienti”, composte da quegli islamisti sfuggiti alle maglie della cattura e che si stanno riorganizzando, pronti a colpire ovunque. Non solo, a sud di Deir Ezzor, la percentuale della popolazione curda scende vertiginosamente.
Nei villaggi intorno a Baghuz vivono soprattutto arabi sunniti, quelli che hanno favorito o, comunque, non contrastato l’avvento dell’Isis. La prossima sconfitta del gruppo jihadista segnerà la fine territoriale dell’autoproclamato Califfato. Ma l’Isis ha già cominciato una sua mutazione per trasformarsi in un’organizzazione clandestina, che potrebbe rivelarsi non meno improvvida né meno micidiale. Intanto, alla base petrolifera di Al Omar è stato già allestito un palco da dove le Forze democratiche siriane si preparano ad annunciare al mondo la sconfitta dello Stato islamico.