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 2019  marzo 14 Giovedì calendario

Biografia di Michael Caine

Michael Caine (Maurice Joseph Micklewhite), nato a Londra il 14 marzo 1933 (86 anni). Attore. Vincitore di due premi Oscar al miglior attore non protagonista, per Hannah e le sue sorelle di Woody Allen (1987) e Le regole della casa del sidro di Lasse Hallström (2000). «Io sono stato il primo della mia generazione a voler fare l´attore dopo aver visto il mio primo film western in una sala cinematografica. Se leggi le biografie di attori alla Olivier, ti dicono cose tipo: "L´autista mi portò a teatro, e quella notte decisi che avrei fatto l´attore". Io fui ispirato dalla parrocchia» • Umili origini. «Sono cresciuto povero nel sud di Londra. Mia madre era una donna delle pulizie, mio padre un facchino al mercato del pesce di Billingsgate. Non c’erano soldi. E così, ogni volta che qualcuno suonava alla porta con conti o bollette da pagare, aprivo e dicevo che la mamma era fuori. Li ho sempre considerati i miei primi lavori di recitazione». «Vivevano in un appartamento di Camberwell. Per strada incontrava Charlie Chaplin, anche lui di quelle parti» (Cristiana Allievi). «La nostra era una famiglia proletaria, ma molto unita. […] Con i bombardamenti, noi bambini fummo evacuati lontano dalla periferia londinese, e il ricordo più doloroso è quello del distacco dai genitori. Molto mi ha segnato invece la guerra in Corea: avevo diciannove anni, e ogni giorno affrontavo la morte. Non l’ho mai dimenticato: credo che quell’esperienza mi abbia anche reso più forte» (a Natalia Aspesi). «“A 10 anni volevo già diventare un attore. Ma la mia classe sociale non lo prevedeva, nemmeno il mio accento. Figuriamoci pensare di diventare famosi: era fuori da ogni logica”. La sua carriera è iniziata grazie a un paio di pantaloni. […] A una recita scolastica sale sul palco per una pantomima, e tutti ridono. In realtà non è merito della sua bravura, ma della lampo dei pantaloni che è scesa. Non importa: lui ha trovato ciò che vuole fare nella vita» (Allievi). Qualche anno dopo, nuove motivazioni concorsero a corroborare quella sua embrionale vocazione. «Io venivo da un quartiere a sud di Londra, Elephant and Castle, che all’epoca era un po’ come la Sicilia: davi a una ragazza il bacio della buonanotte, e il giorno dopo arrivava il fratello: “Ora devi sposarla!”. Una delle ragioni principali per cui sono diventato attore è proprio questa: baciare in libertà le coetanee con il pretesto della finzione! A 14 anni giocavo a pallacanestro e, nello stesso edificio, c’era una scuola di recitazione, cui partecipava una che mi piaceva. Una sera sono entrato, e l’insegnante ha esclamato: “Grazie a Dio: non avevamo uomini!”. I maschi non si iscrivevano perché c’era il pregiudizio “Se sei attore, sei gay”. Pure mio padre l’ha creduto» (Maria Laura Giovagnini). Il successo era però ben lungi dall’arrivare: abbandonata la scuola a sedici anni, Caine intraprese una lunga serie di lavori. «Da giovane ho lavorato in una lavanderia, poi in un magazzino del tè. Ho usato martelli pneumatici in strada, sono stato portiere di notte in un albergo-bordello. Ho lavato i piatti nei migliori ristoranti di Londra, e ricordo persino di aver fabbricato scrigni per gioielli. E sono stato un soldato. Non sono mai stato alla ricerca di ruoli, ma ho sempre voluto entrare nella testa dei personaggi, sentendo il loro dolore. Nessuno mi fece entrare negli Actors Studio: dovevo pagarmi l’affitto. È difficile comprendere che, a 29 anni, non avessi neppure i soldi per comprare un piatto di pasta. La mia banca era in tasca, e il mio conto era pieno di pelucchi». «Non ho frequentato costose scuole di recitazione perché non potevo permettermelo. Lavoravo in una fabbrica di burro. Poi, grazie a una rivista, ho scoperto un posto di lavoro e sono diventato assistente di palcoscenico, con ruoli minuscoli: prima solo una frase, poi due, poi quattro. Qualche pubblicità, poi le prime cose al cinema. Il mio quartiere era pieno di malviventi, e ricordo che, quando ho interpretato il gangster Jack Carter, un giorno per strada il vero bandito mi urlò che il film era spazzatura. La differenza tra me e lui era che io non avevo figli. “Noi uccidevamo solo perché avevamo dei bambini”, mi disse. Per qualche tempo ho preso anche il sussidio di disoccupazione: ero in coda con Sean Connery, che in Scozia era stato eletto Mr Edinburgh ed era arrivato a Londra per concorrere al titolo di Mr Britain» (ad Alessandra De Luca). Inizialmente, come pseudonimo «avevo scelto Michael Scott. Lo cambiai quando fui scritturato per il mio primo ruolo televisivo. Aspettavo il verdetto telefonico dal mio agente, ero in Leicester Square. Al momento concordato lo chiamai per sapere se fosse andato bene, e lui mi disse che avevo avuto una parte, ma avrei dovuto cambiare il nome, perché c´era già un altro attore nel sindacato che si chiamava Michael Scott. Dovevo decidere in fretta. D´un tratto vidi che nel cinema di fronte alla cabina davano L´ammutinamento del Caine con uno dei miei attori preferiti, Humphrey Bogart: "Caine", dissi. E mi andò bene, perché avrei potuto chiamarmi anche Michael Caricadeicentouno» (ad Arianna Finos). Finalmente, nel 1964, la svolta, con Zulu di Cy Endfield. «È stato il film che mi ha lanciato: ero giovane, biondo e slanciato, molto British, e mi offrirono la parte di un ufficiale britannico aristocratico: io però parlavo cockney, la lingua del proletariato, e gli inglesi avrebbero capito la differenza, ma il regista no, perché era americano: non poteva conoscere il nostro incancellabile classismo, che si esprime soprattutto nel modo di parlare. Solo col tempo ho imparato anche a fingere la pronuncia posh, che si adatta di più alla mania di usarmi come personaggio di alta classe». «Dopo il suo primo film di una certa importanza, Zulu (1964) di C. Endfield, il produttore H. Saltzman gli affida il ruolo di protagonista in Ipcress (1965), in cui dà vita alla figura di Harry Palmer, un agente segreto ombroso, silenzioso e un po’ indolente, esatta antitesi del coevo James Bond. Un’analoga tonalità antieroica si ritrova anche nel successivo Funerale a Berlino (1966) di G. Hamilton e, più sfumata, in Il cervello da un miliardo di dollari (1967) di K. Russell. Dopo aver interpretato magistralmente Alfie (1966) di L. Gilbert, ormai una star internazionale, appare come protagonista in numerosi film di cassetta, dando qua e là prove di alto livello, in Gli insospettabili (1972) di J.L. Mankiewicz, o in L’uomo che volle farsi re (1975) di J. Huston» (Gianni Canova). «Con Alfie diventò una star non solo in Inghilterra. Che ricordi ha della sua prima esperienza a Hollywood? “La mia primissima volta andai perché mi aveva invitato Shirley MacLaine, con la quale avevo lavorato nel film Gambit. Ma, quando arrivai a Los Angeles, lei era impegnata su un set fuori città, e rimasi da solo per una settimana. Non conoscevo nessuno, non sapevo dove andare, passavo tutto il tempo seduto nella lobby del Beverly Hills Hotel a guardare i divi che entravano e uscivano. Un giorno, arrivò John Wayne.  Si avvicinò a me. ‘Come ti chiami, ragazzo?’. ‘Michael Caine’. ‘Eri in quel film, Alfie?’. ‘Sì’. ‘Un giorno diventerai una star, ragazzo’. ‘Grazie, signore, è molto gentile’. ‘Ma, lascia che ti dia qualche consiglio. Ricordati di parlare poco, sottovoce e lentamente. E non indossare mai scarpe bianche’. ‘Perché, signore?’. ‘Te l’ho detto, diventerai famoso, e un giorno sarai in bagno, davanti all’orinatoio, e il tizio al tuo fianco, che ti ha appena riconosciuto, si girerà verso di te e ti piscerà sulle scarpe’. E questo fu il mio primo incontro con un divo di Hollywood”» (Enrica Brocardo). Particolarmente notevole, nei primi anni Settanta, la sua interpretazione ne Gli insospettabili, al fianco di Laurence Olivier. «Tratto da una pièce teatrale, ambientato in una villa, il film di Joseph L. Mankiewicz era incentrato sul drammatico confronto tra due uomini: un ricco anziano e il giovane amante della moglie, che lo incontra per convincerlo a concedere il divorzio. Scene di un´ambigua lotta di classe, vissute, allora, dentro e fuori il set: “Quando i giornali appresero che avrei affiancato il più grande e nobile attore britannico, gridarono allo scandalo. Erano certi che sarei uscito distrutto dal confronto. Ricordo che pochi giorni prima dell´inizio delle riprese Olivier mi mandò un biglietto: ‘Se ti stai chiedendo come ti devi rivolgere a me, sappi che puoi chiamarmi Laurence’, c´era scritto. Una bella concessione, che di quel personaggio racconta tutto”» (Finos). «Alla fine degli anni Settanta, il successo […] e il desiderio di sfuggire alla scure del fisco inglese (all’epoca l’aliquota per i redditi più alti era dell’83%) portano Caine a trasferirsi a Los Angeles» (Giuseppe Cesaro). «A un […] party incontrai Marlene Dietrich. Cominciò subito a farmi un sacco di critiche. “Sei vestito in modo troppo trasandato per essere una star del cinema”. E continuò: “Ti ho visto in un film, non usi i tuoi occhi nel modo giusto”. Mi spiegò che dovevo sforzarmi di tenerli aperti: “Tu non te ne accorgi, ma sbatti le palpebre troppo spesso, e vederlo sullo schermo dà fastidio”. Mi diede un consiglio: “Guarda sempre l’attore che hai davanti con un solo occhio, in diagonale. L’altro, lascia che guardi lateralmente rispetto alla cinepresa”. Funziona, ed è esattamente quello che faccio da allora». «Quando era giovane e interpretava ancora ruoli secondari (lo ha fatto per molto tempo), la sua personalità appariva più indefinita: come tanti bravi attori inglesi poteva fare indifferentemente il militare, il gangster, il balordo, il commediante. Poi i suoi personaggi si radicalizzarono. In Vestito per uccidere di Brian De Palma, 1980, era uno psichiatra psicopatico. Ne Il console onorario di John Mackenzie, 1983, e in Hannah e le sue sorelle di Woody Allen, 1984, era un bellissimo personaggio sentimentale e cinico, segnato dal dolore di vivere e dalla paura del fallimento. Se in Alfie, 1966, era stato un esemplare ragazzo d’epoca, carogna e divertente, ne Le regole della casa del sidro di Lasse Hallström, 1999, dal romanzo di John Irving, è un esemplare uomo d’epoca, un medico urbanista, abortista e paterno, fondatore d’un orfanotrofio diverso da tutti, insidiato dalla morte, dolce e grandioso» (Lietta Tornabuoni). «Nel 2002 interpreta The Quiet American di P. Noyce, tratto dal romanzo di G. Greene. Nei due episodi della serie di Batman firmati da C. Nolan, Batman Begins (2005) e Il cavaliere oscuro (2008), ricopre il ruolo del fido maggiordomo Alfred. Si rimette in gioco in Sleuth – Gli insospettabili (2007) di K. Branagh, riadattamento di Gli insospettabili (1972) di J.L. Mankiewicz; è anche nel cast di The Weather Man – L’uomo delle previsioni (2005) di G. Verbinski, The Prestige (2006) di C. Nolan e I figli degli uomini (2006) di A. Cuarón» (Canova). Tra le pellicole cui ha preso parte nell’ultimo decennio, altre due di Christopher Nolan, il fantascientifico Inception (2010) e il capitolo conclusivo della trilogia dedicata a Batman, Il cavaliere oscuro – Il ritorno (2012), e il drammatico Youth – La giovinezza (2015) di Paolo Sorrentino, in cui è stato particolarmente acclamato dalla critica. «Dopo anni di interessanti, comodi piccoli ruoli, quando Sorrentino mi ha offerto una magnifica parte da protagonista mi è sembrato di ringiovanire, anche se il personaggio è, come me, uno che ha superato gli ottant’anni. Mi ha detto: "Questo film l’ho scritto per lei: se mi dice di no, non lo faccio". Potevo impedirgli di girare quello che per me, e mi pare anche per il pubblico, è un ottimo film? […] Sorrentino è un giovane geniale dalle immagini indimenticabili, e soprattutto, come Nolan, scrive lui la sua sceneggiatura, cioè è un autore, non solo un regista. Dieci minuti dopo averla letta, ho subito detto di sì. Gli sono molto grato per il modo in cui mi ha lasciato libero, e per la gentilezza dolcissima con cui mi dava suggerimenti». Da ultimo, nel 2017, oltre ad aver partecipato alla commedia Insospettabili sospetti di Zach Braff al fianco di Morgan Freeman e Alan Arkin, ha presentato e coprodotto il documentario My Generation di David Batty, nato da un’idea dello stesso Caine e dedicato alla “Swinging London” degli anni Sessanta. «“Per la prima volta nella storia, noi ragazzi della working class ci siamo battuti e abbiamo proclamato: ‘Siamo qui e non ce ne andremo!’”, racconta il divo. […] Quando avete capito che le cose stavano cambiando? “Non c’è un evento preciso. Non è che andassimo in giro dicendo: ‘Vogliamo sovvertire il sistema delle classi in Inghilterra’. Ci limitavamo a fare quel che ci pareva, e questo ha innescato la trasformazione. A scuola ci avevano insegnato a essere rispettosi dei superiori, ma iniziammo a realizzare che non esistevano superiori: siamo tutti pari. La Bbc non passava le canzoni che ci piacevano? E noi ascoltavamo le radio pirata che trasmettevano da navi tre miglia fuori dalle acque territoriali britanniche, oppure la radio del Lussemburgo, quella delle forze americane a Berlino”» (Giovagnini). «“La gente pian piano conquistò qualcosa di incredibile arrivando da un incredibile nulla. Nei prima anni Sessanta l’Inghilterra era un paese morto e in bancarotta. Aveva vinto la guerra, ma non la pace, il suo impero si stava sgretolando e il rigido sistema di classi sociali collassava, anche grazie alle spallate dei giovani. […] Da giovani andavamo a vedere film di guerra americani e non quelli inglesi perché gli americani parlavano di soldati semplici, gli inglesi solo di ufficiali. Abbiamo provato a cambiare le cose seguendo un’agenda non politica, ma sociale. Noi proletari ci sentivamo ignorati dal mondo dal cinema; in città non avevamo posti dove andare: potevamo pagare solo fish & chips prima che arrivassero i bar con la musica. Poi sono venute le discoteche. La working class è diventata protagonista per la prima volta al cinema con Alfie e I giovani arrabbiati, mentre prima per interpretare qualche proletario venivano chiamati attori australiani» • «A proposito, negli anni Sessanta c’è stata la cosiddetta rivoluzione sessuale. “In quanto giovane uomo, è stato un periodo decisamente piacevole. Grazie”. Tutto qui? “Sono felicemente sposato, […] e vorrei continuare a esserlo”» (Brocardo) • Due matrimoni, due figlie: una dalla prima moglie, l’attrice Patricia Haines (1932-1977), l’altra dalla seconda e attuale consorte, l’ex modella Shakira Baksh (classe 1947), sposata nel 1973. «La vidi in tv in un pub mentre danzava nello spot di un caffè. Quella sera dissi al mio migliore amico che sarei andato in Brasile a cercare quella ragazza. E invece ho scoperto che era l´ex miss Guyana e viveva a un paio di quartieri di distanza dal mio. L´ho subito contattata. Lei non si è impressionata molto, ma poi l´ho convinta. Shakira è la donna che dà un senso, che mi dà un senso e una proporzione. Quando un giornale mi dedica una pagina, io gliela mostro: "Vedi, c´è scritto che sono un´icona". E lei: "Bene, ma adesso va’ a buttare la spazzatura"». «Per quel che riguarda le donne, io ho […] una moglie bellissima: nessuna attrice giovane può eguagliarla. Il segreto del nostro matrimonio è che lei non ha il ruolo della donna all’ombra del divo. Noi siamo una cosa sola e non ci lasciamo mai: lei viene sempre con me, dovunque mi porti il lavoro, così da decenni evito le eventuali tentazioni. Quando torno da lei ogni sera, mi sento molto fortunato» • Storica l’amicizia con Roger Moore (1927-2017). «“Il nostro primo incontro fu piuttosto strambo. Stavo camminando lungo Piccadilly Road con il mio amico e collega Terence Stamp. All’epoca condividevamo un appartamento perché nessuno dei due aveva abbastanza soldi per permettersi di pagare un affitto intero, mentre Roger era già un attore famoso grazie alla serie tv Il Santo. Venne verso di me: ‘Eri in tv ieri sera?’. Gli risposi che, sì, avevo preso parte a uno show. ‘Diventerai una star’, mi disse, e se andò. Un paio di anni dopo, quando la sua profezia si era avverata, lo incontrai di nuovo. Da quel momento siamo diventati amicissimi, e lo siamo rimasti fino alla sua morte”. Anche Sean Connery è un suo caro amico. “Ci incontrammo a una festa, sempre in quegli anni. In seguito abbiamo lavorato insieme nel film L’uomo che volle farsi re. Che fu un grande successo. Non ci vediamo più molto, perché vive a Nassau, nelle Bahamas, e viaggia di rado”» (Brocardo) • «Quando aveva 40 anni, […] ha cominciato ad avere qualche problema con l’alcol. All’inizio senza nemmeno accorgersene: “Non ero mai stato uno di quelli che ci andavano giù pesante, ma poi ho iniziato a pensare che in un bicchierino di vodka a colazione, prima di andare sul set, non ci fosse nulla di male”. Così, a inizi anni ’70 l’attore era arrivato a bere “due bottiglie al giorno”. A salvarlo, sostiene, è stato il tempismo. […] “Con un immenso colpo di fortuna, Shakira è arrivata nella mia vita giusto in tempo. Con lei è immediatamente svanito il mio senso di vuoto. E poi lei è rimasta incinta e mi ha dato una seconda possibilità di essere padre: presto sono tornato sulla giusta via”. L’attore […] oggi non beve mai durante il giorno: “Il vino per me è solo a cena, Shakira mi ha letteralmente salvato la vita”» (Stefania Saltalamacchia) • «Shakira cucina italiano, arte appresa da un cuoco bolognese, “Sono un infatuato del cibo. Ho posseduto diversi ristoranti. Ho venduto tutto. […] Avere a che fare con cuochi famosi è peggio che trattare con divi capricciosi: un maledetto incubo. Io cucino le migliori patate arrosto del mondo: due chef sono venuti a casa mia per carpirne il segreto”» (Finos) • «“Gli Stones e i Beatles sono tuttora i miei preferiti. Nessuna band ha mai preso il posto il loro posto: gli Stones sono ancora in giro a fare concerti e Paul McCartney ha smesso di fare live solo di recente”. Ma se dovesse scegliere fra i due? “I Beatles. Per un motivo molto semplice: hanno cominciato per primi, e sono stati loro a scrivere il primo grande successo degli Stones: I Wanna Be Your Man l’hanno composta Lennon e McCartney”. Lei li conosceva tutti, vero? “I Beatles, sì. Degli Stones, posso dire di essere amico solo di Bill Wyman. La prima volta che sono andato a ballare in un club, mi sono guardato intorno ed erano tutti lì, i Beatles e i Rolling Stones. All’epoca era normale. […] In quegli anni, tutti s’incontravano negli stessi posti: per forza si finiva per conoscersi”» (Brocardo) • Favorevole all’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. «Preferisco essere povero ma padrone del mio destino, piuttosto che essere povero per colpa di Bruxelles. Sono cresciuto pensando che Bruxelles fosse la sede della radio che trasmetteva musica pop, e non il luogo che ora gestisce casa mia» • Anglicano • Nel 2000 è stato insignito del titolo di «Sir» dalla regina Elisabetta II. «La sera dell’onorificenza, mi chiese sussurrando se sapevo qualche bella barzelletta. Certo, le risposi, ma forse non adatte a una regina. Lei fu la prima a raccontarmene una, e così non potei esimermi». «Michael Caine è fiero di tutt´e due le cose, di quel titolo di Sir ricevuto dalla Regina e sfoggiato nei titoli di testa degli ultimi film e di quel passato da figlio di pulitore di pesce. “Mi considero un simbolo e un esempio per la classe operaia britannica”, proclama serissimo, l´accento cockney che non ha mai voluto perdere e che negli anni della gavetta gli ha negato l´accesso ai palcoscenici shakespeariani del West End» (Finos) • «Con gli anni ha acquistato una capacità di comunicare profonda simpatia, umanità, ironia» (Tornabuoni). «Figura alta e dritta, pochi capelli, […] sul viso quelle rughe che aveva anche in passato, e che gli consentono di esprimere pensieri, emozioni, segreti, senza muovere un muscolo; voce magnifica che noi non conosciamo a causa del doppiaggio. Non è mai stato bello, ma sempre fascinoso» (Aspesi) • «Quando è arrivato il successo, in famiglia si sono ricreduti? “Mio padre è morto troppo presto. Quando se n’è andato ero ancora un fallito, senza un lavoro, senza soldi e apparentemente senza prospettive. Mia madre, invece, è vissuta abbastanza a lungo per vedere che ce l’avevo fatta. Una volta mi chiese: ‘Quando ti danno per un film?’. ‘Un milione di sterline’. ‘E quanto sarebbe?’. Non riusciva neppure a immaginare una cifra del genere. Era una donna delle pulizie, una domestica, come si diceva all’epoca. Le risposi: ‘È abbastanza perché tu possa permetterti una casa tua e non debba lavorare mai più’. Ed è esattamente quello che è successo. Aveva 65, 66 anni. È morta a 92”. E per lei che cosa comprò con i primi guadagni? “Una Rolls-Royce.  È stata mia prima automobile in assoluto. E non sapevo neppure guidarla. Avevo un autista”» (Brocardo). «Ho imparato a guidare che avevo 50 anni, e quando ne ho compiuti 70 ho smesso. Non amo affatto cercare un parcheggio: ho davvero pochissima pazienza per questo genere di cose. E poi ho sempre un sacco di pensieri per la testa, e dunque sono anche un automobilista distratto e molto pericoloso: credo che siate tutti molto fortunati per il fatto che non guido più» • «Non amo nella mia vecchia giovinezza i film violenti, e cerco di essere gentile nella vita. Continuo a studiare chi ci circonda anche quando a Londra prendo, come tutti, la metropolitana. Abbiamo bisogno di partner nel lavoro. Per questo ricordo sempre le parole di Laurence Olivier…”. Quali? “Era il 1972, sul set di Sleuth (Gli insospettabili – ndr). Laurence mi disse: “Pensavo di avere un assistente, ma tu sei un vero partner”. Molti anni dopo, di quel film ho interpretato il remake diretto da Kenneth Branagh. E al mio fianco c’era il bel giovane Jude Law”. E lei ha ripetuto la stessa frase… “Ma Jude mi ha risposto: ‘Grazie: io ho impersonato il tuo Alfie nel rifacimento del film e, quindi, sono il tuo alter ego, non il tuo partner’”» (Giovanna Grassi) • «Recitare è un´ossessione a tempo pieno». «Io non sono una star: sono un attore, e continuerò a esserlo fino a quando sentirò di dare il mio meglio». «Non credete alle balle sul pedigree teatrale. Ai miei tempi noi tutti arrivavamo dal teatro e un po´ dalla tv ed eravamo, tutti, sopra le righe. Diciamolo. Altro che recitazione naturalistica. Oggi, invece, gli attori sono già pronti per il cinema». «Amo perdere la calma in un film. Voglio dire: è così facile! Arrabbiarsi e piangere in una pellicola possono addirittura portarti a vincere un Oscar. La cosa più difficile è recitare in una commedia, e non avrete mai un Oscar per questo» • «Vivere alla giornata, con la fortuna di aver vicino dei grandi affetti e poter ancora lavorare, mi pare il miglior modo di vivere gli anni che restano. Naturalmente con la fortuna di una buona salute». «Non mi dispiacerebbe raggiungere i cento… Come mi ha detto Quincy Jones: “Se vivi altri cinque anni, ne vivrai altri cinque, perché si inventeranno qualcosa!”». «Meglio vecchio che morto, sia nella vita sia nei film».