14 marzo 2019
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Biografia di David Cronenberg
David Cronenberg (David Paul C.), nato a Toronto il 15 marzo 1943 (76 anni). Regista. Sceneggiatore. Produttore. Tra i principali riconoscimenti ricevuti, il premio speciale della giuria al Festival di Cannes per Crash (1996) e il Leone d’oro alla carriera alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia (2018). «Per me all’inizio c’è il corpo. È ciò che siamo, ciò che abbiamo. Siamo tutti come degli attori che si agitano sulla scena della vita, e la prima cosa che abbiamo sono i nostri corpi fisici, la nostra esistenza fisica. Nei miei film il corpo è sempre al centro. Non me ne allontano mai. E, se ciò accade, più me ne allontano meno mi sento sicuro di me» • Figlio di uno scrittore statunitense e di una musicista canadese, entrambi ebrei di ascendenze lituane. «Lei ha iniziato a scrivere da ragazzino. "Scrivevo comic books. Mio padre era scrittore, e ho pensato che per me era una cosa naturale, un processo organico". […] Che ragazzino era? "Dolce, socievole, appassionato di natura, animali, scienza. Ma anche di musica: mia madre era una musicista. La casa era piena di libri e note. Avevo amici, ma ero felice di stare da solo a leggere e pensare. Facevo sport, ma non ero competitivo. […] Ero curioso, amavo la tecnologia e la scienza. Sperimentavo. Cercavo uno sbocco alla mia creatività: ho suonato per tanti anni la chitarra classica, e a un certo punto ho pensato di diventare un musicista professionista, come mia madre. Era ovvio per me dover esprimere la creatività, meno chiaro capire attraverso quale mezzo"» (Arianna Finos). «Da bambino andavo ogni sabato in un cinema di Toronto frequentato da una marea di ragazzi. Vedevamo film sui pirati e sui cowboy. Essendo nel quartiere italiano, di fronte a noi c’era un’altra sala, Lo Studio, e da lì un giorno ho visto uscire tante persone adulte che piangevano. Quale film poteva fare un tale effetto ad adulti? Mi sono avvicinato, e ho visto il manifesto de La strada di Fellini. Qualche anno dopo ho visto il film, e ho pianto anche io: quella è stata la prima volta in cui ho capito che il cinema poteva essere arte, non solo divertimento per bambini». «Amavo gli esistenzialisti alla Sartre e la loro descrizione della condizione umana. Leggevo anche Heidegger, che però mi creava solo problemi in quanto nazista e antisemita. Sapete com’è, io sono ebreo». Iscrittosi all’Università di Toronto, dapprima alla facoltà di Scienze e poi a quella di Lingua e Letteratura inglese, «dopo un viaggio in Europa viene contagiato dal germe del cinema. Viene colpito dal fatto che un suo amico dell’università è riuscito a girare un film insieme ad amici comuni. Cronenberg ne risulta impressionato, e inizia a studiare l’arte del cinema» (Matteo Porretta). Ancor prima della laurea, brillantemente conseguita nel 1967, «nel 1966 riesce a girare con 300 dollari il suo primo cortometraggio in 16 mm, Transfer. Gli attori sono suoi amici. Un anno dopo gira con un budget di 500 dollari From the Drain. Dopo queste primissime esperienze, riesce a racimolare i soldi per il suo primo lavoro di una certa importanza. Riceve una sovvenzione di 3.500 dollari e gira Stereo, un film basato sulla telepatia, che gli costa però 8.500 dollari. Siamo nel 1969, e Cronenberg fa ancora tutto da solo: sceneggiatura, regia, fotografia e montaggio. Il film viene acquistato dalla International Film Archives di New York per 10.000 dollari e viene proiettato al Museum of Modern Art. Nel 1970 con 15.000 dollari gira Crimes of the Future, sempre in modo autonomo e solitario. Dopo un altro viaggio in Europa, David Cronenberg, alla ricerca di una casa di produzione, entra in contatto con la Cinepix, che si occupa di film erotici. Inizialmente la Cinepix è interessata a Cronenberg per produrre film erotici, ma poi il regista presenta una sceneggiatura in cui il sesso si fonde con l’horror che impressiona positivamente i produttori. Dopo una battaglia per trovare i fondi, si iniziano le riprese a Montreal de Il demone sotto la pelle, con un budget di 180.000 dollari. Il film ottiene molto successo a Cannes e, nonostante venga giudicato una porcheria da molti giornalisti, ottiene degli incassi clamorosi: 5 milioni di dollari» (Porretta). «Il corpo, con le sue mutilazioni e le sue metamorfosi, sarà il concreto veicolo di orrore della prima parte della carriera di Cronenberg: a partire da Il demone sotto la pelle (Shivers), suo primo lungometraggio a ricevere, nel 1975, un’autentica distribuzione nelle sale. Dalle creature simili a giganteschi vermi che, in Shivers, seminano il panico e la morte fra le abitazioni di un condominio, penetrando letteralmente nei corpi di uomini e donne, alla disgustosa escrescenza che nel successivo Rabid – Sete di sangue, del 1977, scatenerà un’incontrollata epidemia di zombie: nei primi film di Cronenberg l’orrore ha puntualmente origine nel corpo, violato da elementi alieni, e dal corpo si propaga con la forza distruttiva di un contagio. Al suddetto filone si ascrive a pieno diritto pure Brood – La covata malefica, del 1979, in cui l’orrore prende forma mediante le ributtanti creature date alla luce da Nola Carveth (Samantha Eggar). […] L’apice del body horror, tuttavia, sarà sancito un decennio più tardi da La mosca, nuovo adattamento per lo schermo del racconto di George Langelaan, che nel 1986 diventa il maggior successo di pubblico nella carriera del regista. Storia dell’agghiacciante metamorfosi dello scienziato Seth Brundle (Jeff Goldblum) provocata da una contaminazione genetica, La mosca spinge ancora più oltre la rappresentazione del corpo umano come teatro di un orrore progressivo e inesorabile. A partire dal 1981, con Scanners, David Cronenberg dà inizio a una nuova declinazione del body horror: una declinazione che, oltre ad assimilare in misura sempre maggiore elementi della fantascienza, non si limita ad esaminare le mutazioni fisiche, ma si focalizza in misura altrettanto importante anche su quelle della mente umana. Il nucleo narrativo di Scanners, ad esempio, è costituito dai poteri telepatici e telecinetici di individui soprannominati scanner, mentre l’anima più squisitamente horror del film può essere sintetizzata da una sequenza cult del cinema di Cronenberg, l’improvvisa esplosione di una testa. Anche Johnny Smith, il personaggio interpretato nel 1983 da Christopher Walken ne La zona morta, è dotato di speciali facoltà mentali, ovvero la capacità di prevedere – e quindi modificare – il futuro. […] Ma nel 1983, accanto a La zona morta, si colloca pure uno dei titoli fondamentali della filmografia cronenberghiana, Videodrome: un’opera talmente all’avanguardia, per temi e suggestioni, da registrare un deludente responso commerciale, per essere riscoperta e rivalutata solo in seguito. Videodrome, viaggio da incubo nei deliri di Max Renn (James Woods), esprime infatti in maniera esemplare la componente più allucinatoria del cinema di Cronenberg, presentando una visione alterata della realtà, ma anche le sue derive gore e horror (corpi orrendamente sventrati, la compenetrazione fra la carne e lo schermo). Dalla realtà deformata di Videodrome si passerà, nel 1999, all’esplorazione di una vera e propria realtà virtuale in eXistenZ, incentrato su una futuristica ipotesi di biotecnologia. Nel 1988 Inseparabili, ispirato al romanzo Twins di Bari Wood e Jack Geasland e realizzato a due anni dal trionfo de La mosca, segna una svolta radicale nel percorso di David Cronenberg: un reciso allontanamento dai territori dell’horror per inoltrarsi a fondo nei meandri più oscuri della psiche. […] L’indagine della follia proseguirà in altre due trasposizioni di opere letterarie, con il confronto con due nomi di primo piano della narrativa degli ultimi decenni. Ne Il pasto nudo, tratto nel 1991 dal controverso romanzo di William S. Burroughs, Cronenberg ci immerge nelle orripilanti allucinazioni di William Lee (Peter Weller), che interagisce con giganteschi scarafaggi, viene spinto a uccidere la moglie Joan (Judy Davis) e vive una bizzarra avventura che lo porterà fino a Tangeri (la storia è parzialmente ispirata alla vita dello stesso Burroughs). Spider, adattamento del 2002 del libro di Patrick McGrath, si sviluppa invece lungo un duplice binario narrativo: il presente di Dennis Cleg (Ralph Fiennes), schizofrenico appena dimesso da un manicomio, e i flashback del suo tormentato passato e dell’assassinio della madre (Miranda Richardson). Due linee temporali condotte a intrecciarsi, sovrapporsi e confondersi con effetti sorprendenti, in uno dei film più inquietanti nella produzione del regista. […] L’amore come forma suprema di illusione, un sentimento vissuto e consumato anche nella sua dimensione mortifera, è stato messo in scena in maniera superba in uno dei film più struggenti e sottovalutati mai diretti da Cronenberg: M. Butterfly, trasposizione del 1993 del celebre dramma teatrale di David Henry Hwang. Un eccezionale Jeremy Irons presta il volto a René Gallimard, diplomatico francese che, nella Cina degli anni Sessanta, si lascia travolgere dal sentimento per Song Liling (John Lone), cantante dell’Opera di Pechino che sotto apparenze femminili nasconde una natura maschile. Se nei film dei decenni precedenti il regista ci mostrava le trasformazioni e le ridefinizioni del corpo in chiave orrorifica, in M. Butterfly la metamorfosi di Song, un maschio che “interpreta” una donna, è generata invece da una forma di (auto)illusione, ma anche da un inscindibile processo di rielaborazione artistica della realtà; e Gallimard, d’innanzi al fallimento del proprio ideale di amore, finirà per smarrire la ragione, assumendo egli stesso le sembianze di Madama Butterfly in uno dei finali più splendidamente tragici di tutto il cinema cronenberghiano. Dal desiderio sublimato di M. Butterfly si passerà, nel 1996, a quello quanto mai concreto e perverso di Crash, un film in cui il connubio fra passione e sofferenza, fra Eros e Thanatos, raggiunge il suo apice più estremo. Nella trasposizione del libro di J.G. Ballard, infatti, non c’è solo una fusione fra pulsione erotica e pulsione di morte, ma anche quella fra la carne e la macchina. […] Nel 2005, il ritorno sulla scena di David Cronenberg con uno dei suoi titoli in assoluto più apprezzati e di maggior successo, A History of Violence, apre un nuovo capitolo nella riflessione del cineasta sulla violenza come componente endemica della natura e della società umane. Basato sull’omonima graphic novel di John Wagner e Vince Locke, A History of Violence racconta infatti un’improvvisa esplosione di violenza nella placida cornice della provincia rurale americana, nel momento in cui il tranquillo padre di famiglia Tom Stall (Viggo Mortensen) si sporca le mani di sangue per neutralizzare una coppia di rapinatori. […] Quella violenza che Tom Stall tenta strenuamente di mascherare e di respingere è la sola legge riconosciuta nel microcosmo circoscritto de La promessa dell’assassino, che nel 2007 vede rinnovata la collaborazione fra Cronenberg e Viggo Mortensen. In questa occasione, il regista adotta i codici del neo-noir e del gangster movie per elaborare un crudo affresco dell’universo della mafia russa di stanza a Londra, dei suoi torbidi intrecci familiari e dei suoi sanguinari regolamenti di conti. Al contrario, è una violenza correlata alla fruizione del piacere quella che scorre latente in A Dangerous Method, film del 2011 basato su una pièce teatrale di Christopher Hampton sul triangolo composto da Carl Gustav Jung (Michael Fassbender), da una sua giovane paziente affetta da isteria, Sabina Spielrein (Keira Knightley), che diventerà poi la sua amante, e da Sigmund Freud (Viggo Mortensen), mentore di Jung. […] L’impresa semi-impossibile di Cosmopolis, del 2012, consisteva nel trasporre in immagini il romanzo di uno degli alfieri della narrativa postmoderna, Don DeLillo: recuperandone la struttura dialogica e l’ambientazione claustrofobica (gran parte del racconto si svolge all’interno di una limousine), David Cronenberg prende spunto dalle contraddizioni di un capitalismo sfrenato per dipingere scorci di un mondo impazzito: una New York messa a ferro e fuoco e in procinto di sprofondare nel caos. È invece una Hollywood da incubo a fare da teatro nel 2014 a Maps to the Stars, dramma con venature satiriche in cui si intrecciano i destini […] di un piccolo gruppo di personaggi: dalla diva sul viale del tramonto Havana Segrand (Julianne Moore), vissuta perennemente all’ombra di una madre leggendaria che non cessa di perseguitarla, ad Agatha Weiss (Mia Wasikowska), misteriosa ragazza dal volto sfigurato, passando per manager spregiudicati, star adolescenti e autisti con sogni di gloria. Se Cosmopolis ci raffigurava un presente (o un futuro?) alle soglie dell’inferno, la Hollywood di Maps to the Stars è una città di spettri: l’ultimo lavoro di Cronenberg è infatti un film popolato di morti che tornano dall’oltretomba, di minacciosi Doppelgänger, di rimorsi e ossessioni che prendono corpo sotto forma di autentici fantasmi» (Stefano Lo Verme) • Qualche esperienza da attore, soprattutto all’interno di serie televisive. «Quando recito non voglio dirigere: voglio che il regista sia contento di me e che mi faccia i complimenti. Mi piace tenere gli ambiti separati» • «“Per un regista, può essere interessante provare diverse forme d’arte: oltre al cinema o connesse al cinema. Dare voce a un impulso creativo: misurarsi con la scrittura, la musica, la pittura”, dice Cronenberg. Che, […] nel suo lungo itinerario, ha incontrato tanti mondi: la letteratura (il suo primo romanzo, Divorati, è stato pubblicato da Bompiani), l’opera teatrale (The Fly), la pittura (la serie del 2008 Chromosomes), l’editoria d’arte (il volume in tiratura limitata Red Cars, poi divenuto un’installazione multimediale). […] “La sensibilità visiva è parte del mio cinema: ogni fotogramma è come una composizione in cui convergono colori, forme, suoni”» (Vincenzo Trione) • Tre figli: una femmina dal primo matrimonio, finito con il divorzio; una femmina e un maschio dalla seconda moglie, di cui è rimasto vedovo nel 2017 • «Sono ateo. Non credo nell’aldilà, perché noi siamo solo corpo. Il centro dell’esistenza umana per me è il corpo» • «Penso come tutti che Trump sia un disastro totale» • Una «passione immensa» per le Ferrari. «Ne ho avute tre in vita mia. Da piccolo avevo un triciclo rosso. Le Ferrari sono l’evoluzione di quel triciclo che amavo». A un modello avrebbe persino voluto dedicare un film: «Avrebbe dovuto interpretarlo Mel Gibson. Era un omaggio a uno dei bolidi da leggenda, la Ferrari 156, soprannominata “Shark nose” per il muso a forma di squalo» • «La paura, la malattia, il conflitto tra lo spirito e la carne: sono i demoni le sue fonti d’ispirazione. Perché? “Non sono sicuro che l’analisi di questi tre temi possa spiegare adeguatamente il mio processo creativo. È un’osservazione che nasce da chi conosce i miei film, lo capisco. Ma per me fare film è un’altra cosa: è un’esplorazione di carattere filosofico. Sono influenzato dalle cose che leggo e che vedo. Il corpo rappresenta l’esistenza umana. È facile dimenticarlo, perché abbiamo un intelletto e uno spirito. Ma noi siamo il corpo che abbiamo, ed è l’oggetto principale di un regista. La malattia, la morte, la mutazione sono aspetti naturali, non demoni”. […] Ha parlato di Bambi come di un mostro. “Forse dissi che Bambi fu la mia prima consapevolezza di paura e tristezza. La separazione di Bambi da sua madre è un’immagine terribile per un bambino, e l’idea che tua madre possa essere uccisa è uno shock. I bambini non comprendono la complessità della vita umana, ma sono molto sensibili agli aspetti più elementari della vita, e alle relazioni familiari. Il film che da adulto mi ha trasmesso più paura è A Venezia… un dicembre rosso shocking di Nicolas Roeg. […] Quello è davvero un film spaventoso”. […] E il cinema che la ispira? “Fellini è il numero 1: il ritmo, la bellezza, il suo sguardo sulla sessualità. Quando uscivo da un suo film credevo di essere in grado di parlare italiano. E poi il formalismo di Antonioni, o Bergman e Kurosawa. Quando ho cominciato a scrivere, l’ispirazione era legata ai romanzi, più che ai film. Ho sempre pensato di diventare uno scrittore, più che un regista”. […] Quando ha cominciato a catturare farfalle e a classificare insetti, rane, serpenti? “Non la trovo un’abitudine insolita: è piuttosto comune per un ragazzo. Nei dintorni di Toronto è come essere in campagna: ci andavo per entrare in contatto con la natura, non solo serpenti e rane. Ero affascinato dagli insetti. Siamo affascinati da alieni di altri pianeti, ma io trovo che le creature più strane che si possano incontrare, soprattutto gli insetti, siano sulla Terra”» (Valerio Cappelli) • «Benché in origine Cronenberg sia stato relegato nei territori marginali del genere horror, sin dai suoi primi film scandalosamente sovversivi il regista ha mostrato di voler condurre i suoi spettatori ben al di là del cinema di exploitation, costruendo film dopo film un edificio originale e personalissimo» (Alberto Barbera). «Corpi. Corpi malati, corpi in disfacimento, corpi mutanti. Un repertorio infinito di mutazioni, in cui l’essere umano diviene una macchina, un animale, un alieno. Il sistema naturale di Cronenberg non somiglia a quello di Linneo o a quello di Darwin. È un incubo surrealista» (Giovanni Bogani). «David Cronenberg […] è un canadese gioviale con la passione delle grandi auto, specialmente delle Ferrari: questo lo sanno tutti. Più difficile è capire il mistero della sua arte ambigua, torbida, affascinante. Adottando (non sempre) i modi dell’horror, è il cineasta che è andato più lontano, più in profondità, nell’analisi della natura dell’uomo contemporaneo, tra fusione e confusione. […] L’avanzare dell’importanza della tecnologia, le mutazioni, la virtualità, la confusione dei sessi nella vita umana: nessuno dei fenomeni profondi di cambiamento tra Novecento e Duemila è ignorato, trascurato o non anticipato nell’opera di David Cronenberg, e anche l’aver adottato i modi dell’horror potrebbe essere ima scelta-giudizio sul mondo attuale specialmente significativa. Questi modi non risultano tuttavia minimamente banali: nello stile di Cronenberg, il raccapriccio usuale è sostituito da una lucidità metallica, da una “imagerie” sfuggente che non esclude l’emozione, e, mentre l’horror non perde mai la sua natura di intrattenimento, i film audaci e straordinari di David Cronenberg oscillano tra filosofia, poesia, profezia» (Lietta Tornabuoni) • «Non ho mai seguito alcun corso di cinema. La mia scuola è stata vedere pellicole: così come si impara a scrivere un romanzo leggendone, allo stesso modo si impara a girare film vedendone». «Preferisco di gran lunga il digitale: con la pellicola mi succedeva spesso che le copie per la distribuzione non fossero come quella originale ottenuta direttamente dai negativi, che era costata tanta fatica per l’illuminazione, il colore eccetera, e poi quello che il pubblico vedeva era l’equivalente della brutta fotografia di un quadro. Col digitale ogni copia è uguale all’originale: anzi, l’originale non esiste». «“Netflix ha avuto un impatto deflagrante nel mondo del cinema, ma è un fenomeno nuovo e molto interessante. Io guardo molte serie, alcune sono meravigliose: penso a Babylon Berlin per esempio. Netflix ha portato un processo di film-making completamente diverso, cambiato la distribuzione. È un fenomeno reale e potente”. […] Quindi vorrebbe girare una serie? “Ci sto pensando. Non farò un altro film: penso che scriverò un altro romanzo. Ma quando guardo le serie penso che somigliano più a un romanzo che a un film e, sì, ci sto pensando davvero”. Ha già in mente un tema? “No, ma so che vorrei scriverla io, e l’argomento lo scoprirò davanti a uno schermo bianco. Sarà qualcosa di molto personale: racconterà la mia esperienza di questi anni di vita”» (Finos). «Mio padre era uno scrittore. Per me scrivere è arte. Scrivere un romanzo ti permette di entrare nella testa delle persone, cosa che non accade nel cinema. La serie è più simile al romanzo, vive nel tempo, ti permette di conoscere in profondità i personaggi. Fare tv per me potrebbe essere un’alternativa a scrivere un altro romanzo dopo Divorati» • «Controllo tutto: dalla carta da parati, all’accento di un attore. Credo che un buon film sia fatto di cose minime, sottili, sfumature». «In tutti i miei film si pone il problema dell’identità e della sua creazione nella vita delle persone. Ad esempio, Spider è la storia di un uomo che non è stato in grado di formarsene una». «Gran parte dei miei film sono politici in quanto filosofici. La pratica della filosofia può diventare politica. Tutti i miei film affrontano la difficoltà delle società organizzate, la creazione di un governo civile. Per questo penso che, alla fine, tutti i miei film siano sostanzialmente film politici». «Non amo la parola “visionario”. Cos’è una visione? Per me, è comprendere la condizione umana. Partendo da quel che ho dentro di me. Tutti i miei film derivano dal mio cervello. Il mio sistema nervoso è l’unica realtà in cui credo».