il Fatto Quotidiano, 14 marzo 2019
I diari privati di Wittgenstein
È un uomo malato, è un uomo cattivo: le memorie dal sottosuolo si somigliano tutte, che a compilarle sia un vecchio tapino oppure un brillante filosofo. Fragile, piagnucoloso, innamorato della donna sbagliata, pigro, depresso e un filo misantropo: Ludwig Wittgenstein, uno di noi. O almeno così lui si ritrae nei diari privati, appena riediti, dopo vent’anni, da Quodlibet con la curatela di Ilse Somavilla e l’introduzione di Michele Ranchetti.
Movimenti del pensiero raccoglie gli appunti del filosofo (1889-1951) tra il 1930 e il 1932 e tra il 1936 e il 1937: i primi furono scritti a Cambridge (dove era tornato a insegnare nel 1929, dopo l’arruolamento nella Prima guerra mondiale, l’isolamento e la catastrofica esperienza come maestro elementare), i secondi a Skjolden, in Norvegia, isolato in un eremo tra i fiordi; i primi segnano il ritorno dell’intellettuale agli studi teoretici, i secondi coincidono con la “conversione” dal cristallino Tractatus alle brulle e impervie Ricerche. E infatti, già nei diari, si accenna ai giochi linguistici, ai fraintendimenti e ai pregiudizi della filosofia, al linguaggio privato, al terreno scivoloso della logica…
È materiale prezioso questo: non solo perché è l’unico diario “tradizionale” di Wittgenstein – scoperto nel 1996 ed edito in Italia, per la prima volta, nel 1999 –, ma anche perché sopra il precipitato filosofico galleggia l’umanissimo spirito. “La vita è di una tremenda serietà”, figuriamoci quella di un pensatore di professione, ex soldato, ex maestro dalle bacchettate facili, eremita a tempo perso, amante respinto e perciò livoroso e autore refrattario che vuole bruciare i propri scritti un giorno sì e l’altro pure: in vita Ludwig non pubblicherà nulla, a eccezione del Tractatus logico-philosophicus nel 1921, su cui nutre peraltro riserve perché “contiene anche del kitsch”. “Se il mio nome sopravviverà sarà solo come il terminus ad quem della grande filosofia occidentale. Un po’ come il nome di colui che ha bruciato la biblioteca di Alessandria”.
Modesto in metafisica e vanitoso nella vita, Wittgenstein ha – per sua stessa ammissione – l’inverno nell’anima e spera perciò di trovare conforto e serenità nella teoresi: “Il compito della filosofia è quello di tranquillizzare lo spirito su questioni prive di significato. Chi non è incline a tali questioni non ha bisogno della filosofia”. Tra antidepressivo e ansiolitico, la prima delle scienze funziona un po’ come la pillola della felicità; se non fa addormentare, quantomeno calma i nervi, di questo Ludwig ha bisogno: “Ho un’anima più nuda della maggior parte degli uomini e in questo consiste per così dire il mio genio”.
Tra una riflessione e l’altra, una annotazione e l’altra, l’intellettuale ama perder tempo, vorrebbe “solo mangiare e dormire tutto il giorno” nella sua cameretta, si impigrisce, ha “pensieri torbidi”, si sente “depresso, ma in modo cupo”. E via con l’autoflagellazione e/o l’autocommiserazione: “Sono sterile, stupido, vile, permaloso, meschino, avido, volgare, molto debole e lunatico, sporco con tutta la mia vanità… Tendo un po’ alla sentimentalità facile, allo scoramento, alla paura… e a fondare questa vita sul fatto che io sono molto più intelligente degli altri”.
In amore, però, è come tutti: fesso. Si invaghisce di Marguerite Respinger, con cui flirta passeggiando e con cui il massimo dello svago, e della trasgressione, è andare al cinema a vedere film americani, western soprattutto. Non ha timore di dichiararsi infantile, Wittgenstein, amante com’è delle favole e dei romanzi: “Ho la sensazione ora che se perdessi la Marguerite dovrei andare (interiormente) in convento”, come un’Ofelia qualunque. Ovviamente la signora gli preferirà un altro, tal Talla Sjögren: è una banale “relazione borghese”, scriverà lui, borghese per eccellenza ancorché schifato e scornato. “Quando si è nella merda c’è una sola cosa da fare: marciare”: Ludwig non regge bene la disfatta amorosa; non è proprio in grado di prenderla con filosofia, ma con la tipica cupezza austriaca sì, e infatti si ammala subito di “costipazione e bronchite spirituale”. È solo uno delle tante vittime delle passioni – e delle malattie – del suo tempo, tutte appartenenti “alla stessa classe caratteristica di quest’epoca”: parenti, amici, colleghi, artisti, scrittori e intellettuali, come Ramsey, Moore, Keynes, Bachtin, Spengler…
Da buon austriaco, Wittgenstein eccelle nell’arte dell’aforisma (vedi l’ammirato Kraus), è ossessionato dai sogni (come Freud, il poco stimato “porco”), è un fanatico dell’architettura (Loos & c.) e ama visceralmente la musica. Sostanziosa, ovviamente, è l’eredità filosofica di cui si fanno carico le pagine, da Nietzsche a Kierkegaard, da Spinoza a Kant. Ma Wittgenstein è un pensatore difficilmente etichettabile: è un analitico? È un continentale? È un logico o un sentimentale?… Meglio astenersi, al più produrre “osservazioni sulla metafisica come un genere di magia”, stando ben lontani dalle “facce di culo” dei critici.
E poi c’è Dio, spesso rapace o indifferente o irriducibilmente Altro, con cui Ludwig vorrebbe “litigare”. La sua è una fede “debole” e inadeguata, e su tutto problematico è il suo rapporto con le radici ebraiche, rinnegate dalla famiglia che si era convertita al protestantesimo. Il diario si chiude con un appello: “Ebrei!… Date nuovamente qualcosa per la quale vi spetti non freddo riconoscimento ma caldo grazie. Ma la sola cosa che il mondo richiede da voi è la vostra sottomissione al destino”. È il 1937: mai profezia fu più infausta.