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 2019  marzo 14 Giovedì calendario

Il caso The Atlantic, rivista storica al passo coi tempi

«Il nostro modello di business è Laurene Powell Jobs», scherza una firma dell’Atlantic, la piattaforma giornalistica multimediale più interessante del panorama editoriale americano. La battuta è buona, ma è solo una battuta perché se è vero che nel 2017 la vedova del fondatore di Apple ha acquistato il pacchetto di maggioranza della prestigiosa rivista fondata nel 1857 da Ralph Waldo Emerson, è altrettanto vero che da qualche anno l’Atlantic è un esempio di «legacy publication», di rivista storica, capace di trasformarsi in media company moderna e in grado di innovare, di pesare nel discorso pubblico e anche di fare profitti. 
Da mensile tradizionale di analisi politica e letteraria con sede a Boston, dieci anni fa l’Atlantic si è trasferito a Washington, nel complesso del Watergate, trasformandosi col tempo in una rivista di idee sia sul magazine sia sul sito, di documentari che distribuisce su YouTube, di podcast di attualità, di contenuti confezionati ad hoc per terzi, di servizi di consulenza strategica, di campagne pubblicitarie create per le aziende e, soprattutto, di incontri live, circa duecento ogni anno tra festival, seminari, workshop, cene e tavole rotonde. L’Atlantic porta i suoi contenuti, i suoi giornalisti e la sua capacità di condizionare la politica e la cultura popolare in giro per gli Stati Uniti, contribuendo al dibattito pubblico americano e incontrando, per questo, l’interesse di numerosi marchi che investono negli eventi live per stare dove accadono le cose o per approfondire i temi a loro cari.
Fondata 162 anni fa per raccontare l’idea americana e la religione civile dell’americanismo, ma anche per dare alle tesi abolizioniste sulla schiavitù un luogo consono alle baruffe e alle scazzottate intellettuali dell’epoca, l’Atlantic di questo scorcio di secolo si occupa delle idee che condizionano la politica di Washington, racconta il modo in cui la Silicon Valley progetta il futuro, osserva come Hollywood influenza la cultura popolare globale. Sta per lanciare un nuovo contenitore di carta e digitale sulla famiglia che si affiancherà a City Lab, un sito dedicato alle città del futuro e a chi ci vuole vivere, e sta studiando il modo di portare i contenuti giornalistici in televisione e dentro gli assistenti domestici digitali come Amazon Alexa, Apple Siri e Google Assistant (sugli smart speaker sta investendo molto anche il New York Times). 
Nel 2018 l’Atlantic ha registrato il nono anno consecutivo di bilancio in attivo, con un fatturato intorno ai cento milioni di dollari. L’anno scorso, mentre molti giornali licenziavano, ha assunto cento persone, portando il totale dei dipendenti a 430 unità, e nel 2019 ne arriveranno altri 50 tra giornalisti, ingegneri, data scientist e product manager. 
Il giornalismo d’inchiesta dell’Atlantic, informato e in bello stile, è il cuore dell’impresa editoriale guidata dal direttore Jeffrey Goldberg: l’ultima copertina cartacea spiega le ragioni a favore dell’incriminazione del presidente Donald Trump, mentre le due precedenti indagano sulle cause della rabbia americana e sulla cosiddetta «recessione sessuale» delle nuove generazioni. Ma è altrettanto notevole l’attenzione che il gruppo presieduto da Bob Cohn mette nel diversificare il flusso di ricavi in modo da mantenere alto il livello dei contenuti giornalistici. Oggi il 20 per cento del fatturato dell’
Atlantic è fatto dai ricavi dell’edizione di carta, l’80 per cento arriva dagli eventi, dai servizi e dalle attività digitali. È un circolo virtuoso: più il magazine è credibile e autorevole, più aumentano non solo i lettori e la pubblicità ma anche la possibilità di ampliare il fatturato con le attività accessorie e parallele. 
Dare un’occhiata alla gerenza, la doppia pagina con i nomi dei giornalisti e dei manager che lavorano nel gruppo, fa capire la portata della sfida dell’Atlantic perché, oltre a menzionare i giornalisti e l’editore, mostra in quanti si occupano degli Atlantic Studios che producono i documentari, le cinquanta persone di Live, la struttura degli eventi, le altrettante di Re:Think, l’agenzia pubblicitaria interna, e di Atlantic57, la divisione creativa e di consulenza strategica. 
Gerenza in inglese si dice «masthead» e Masthead è il nome del club dei lettori premium di Atlantic, i quali pagano 120 dollari l’anno per ricevere contenuti esclusivi, per incontrare i giornalisti e ottenere prelazioni agli eventi live, il più importante dei quali sarà l’Atlantic Festival dal 24 al 26 settembre a Washington. Sulla base di questa prima esperienza di membership, all’inizio del 2019 sarebbe dovuta partire la trasformazione dell’Atlantic da sito gratuito in club a pagamento, in linea con quanto stanno facendo quasi tutti i gruppi editoriali, grandi e piccoli, convinti sempre di più che la migliore garanzia di sopravvivenza dei giornali sia quella di avere un nucleo consistente di lettori disposti a pagare e quindi di liberarsi dalla volatile dipendenza dagli investimenti pubblicitari. È improbabile che ci riescano tutti, intanto non è consentito sbagliare la modulazione tra offerta e prezzo: per questo, l’Atlantic ha deciso di rimandare la scelta e di prendersi il tempo necessario a rafforzare ancora di più la qualità dei contenuti giornalistici, in modo da renderli indispensabili e solo a quel punto chiedere ai lettori di entrare a far parte del club. In questo senso, avere un editore con le spalle larghe come Powell Jobs non è un modello di business, ma certamente 
lo aiuta.