la Repubblica, 14 marzo 2019
E Hillman disse: attenti, le mail vi rubano l’anima
Nell’ottobre del 2011, nella sua casa di Thompson, Connecticut, invasa dalla luce dorata dell’autunno del New England, James Hillman aveva radunato intorno al suo letto di morte un piccolo gruppo di seguaci, per restare pensante («stay thinking»), come diceva, fino all’estrema soglia della biologia.
L’esercizio ultimo di quella «visione in trasparenza», di cui aveva parlato nei suoi scritti, lo spingeva a esplorare l’ultima frontiera dell’io con un’inesauribile curiosità che trasmetteva, davvero socraticamente, a chi si avvicendava al suo capezzale. Mi aveva voluto lì per lavorare all’ultimo libro, postumo, sull’immagine, che aveva ideato per saldare, diceva, il suo residuo debito con Jung. Il teatro di quella fantasmagorica rappresentazione in forma di dialogo veniva solcato a tratti dall’entrata in scena di consanguinei passati a fargli l’ultima visita e a conversare del più e del meno, nella maniera urbana e stoica degli americani.
Ed ecco, in un pomeriggio di sole, nel teatro affollato di simboli alchemici e divinità classiche, aveva fatto irruzione e subito giganteggiato un nuovo soggetto: la mail. Dalla tasca della giacca del nipote, avvocato newyorkese approdato al suo capezzale e intento a una conversazione di perfetto autocontrollo, non riuscivano a non sfuggire le vibrazioni e i ronzii delle mail in arrivo sul cellulare. Anch’io avevo, da giorni, lo stesso problema. Ci eravamo scambiati uno sguardo inquieto che a Hillman non era sfuggito. «Adesso spiegatemi», aveva intimato. E noi, alternandoci, con calore avevamo spiegato. Che ogni giorno, ogni ora, ogni minuto eravamo tormentati dall’arrivo di mail. Che non potevamo fare a meno di controllare, a relativamente brevi intervalli, il loro grado di urgenza. Che in ogni caso la sera ci trovavamo di fronte una parete di roccia di mail inevase da scalare. Che non arrivavamo mai ad abbatterla, e ne avanzavano sempre, per la notte, per gli intervalli del lavoro, per il weekend. Mentre ci affannavamo a rispondergli, Hillman ci aveva zittito: «Stiamo perdendo tempo a parlare della mia anima e della mia morte, ma il problema più grande lo avete voi. Questa che mi state descrivendo è la morte dell’anima, della vostra, di quella del mondo. Non la guerra, non il terrorismo, non la catastrofe ecologica, non la depressione endemica: questo è il problema più grande dell’umanità da cui mi sto congedando. Peccato, non potrò aiutarvi a risolverlo. Ma, capite?, non potete vivere così, nessuno può, senza perdere l’anima».
Sono passati degli anni, un galateo anche eccessivo è stato collettivamente istituito – un telefonino silenziato che vibra è un tabù a una cena, figuriamoci al capezzale di un moribondo – ma il problema non è stato risolto, anzi, si è ingigantito. Un collega di Princeton mi ha confidato che nelle università americane l’espressione “weekend del professore” è ormai gergale per intendere quella condanna ai lavori forzati digitali che è l’evasione delle mail accumulate nella settimana e che non fa più scorgere ai galeotti la luce del sole sui prati dei campus. Il professore di Oxford ha abolito il cellulare proprio per non essere tentato di controllare le mail mentre fa altro: «Scelta politica» contro il furto di tempo e di pensiero, «contro lo sfruttamento schiavile dei capitalisti californiani» che ci costringono a collaborare «a un’estrazione di dati che ne moltiplica esponenzialmente potere e guadagno». Vero o no, anche lui prima o poi deve fare i conti con la muraglia di messaggi che nel frattempo si è impennata nel computer. E passare i weekend recluso nel suo cottage dello Oxfordshire. Chiunque incontri, qualunque mestiere faccia, mi informo sulle sue tattiche di sopravvivenza alla comunicazione digitale. Volti smarriti, gemiti, sospiri.
In un articolo appena uscito sul New York Times Adam Grant, uno psicologo del lavoro, rivela che secondo una recente ricerca l’inbox dell’americano medio viaggia a una media di 199 mail inevase. E cerca di stabilire delle regole, partendo però da una constatazione che subito scalza l’obiezione dei cinici («lasciatele lì»): non possiamo – psicologicamente, moralmente – non rispondere. Anche se fiaccano le nostre funzioni cerebrali – tanto che alcune aziende, in America, hanno introdotto misure contro l’evasione serale o festiva delle mail – non espletare il nostro pensum quotidiano di lavori forzati digitali fa male alla psiche, induce insofferenza o peggio indifferenza verso i nostri simili e finisce per estendere la trascuratezza al nostro restante e vero lavoro. C’è chi obietta: gli scrittori si sono sempre lamentati della mole di corrispondenza, cui assegnavano fasi fisse della giornata, sottraendole alla creatività con mesta ma alacre metodicità. Tuttavia, erano grandi, mentre oggi sommersi dalla corrispondenza siamo anche noi piccoli (che sia un altro degli illusori status symbol che il capitalismo tecnologico ci conferisce a tradimento?).
Peraltro un tempo bisognava estrarre la carta, scrivere usando la (oggi nelle mail facoltativa) grammatica, affrancare la busta, spedirla. Ognuna di queste fasi assicurava una selezione naturale, scaglioni di mittenti si scoraggiavano via via. Ora con un clic chiunque può raggiungere chiunque. Il che è però anche, va detto, una grande conquista. Per secoli gli umanisti hanno perseguito la comunicazione universale. I manoscritti degli intellettuali di ogni paese solcavano il globo con fatica e pericolo, a cavallo o per nave, con tempi interminabili e nessuna certezza di risposta. Se ogni rivoluzione mediatica porta con sé un nuovo umanesimo e ogni rinascimento culturale ha alle sue spalle la creazione di un nuovo medium, se l’invenzione della stampa nel XV secolo ha permesso di far circolare, con gli scritti, le idee, e ha riunito in un unico circolo l’internazionale dei dotti, non possiamo non riconoscere che oggi la catena del pensiero è incrementata e accelerata dalla possibilità di scambiare messaggi istantanei con ogni anche remota regione del mondo. La comunicazione è progresso, e questa inoppugnabile verità basta, se non a dissolvere, a ridimensionare come forse temporanei i nostri disagi. Forse. Cosa direbbe James Hillman, se fosse ancora tra noi?
Probabilmente ricorrerebbe al mito classico. Quale dio greco riunisce in sé furto e comunicazione? Uno solo: Ermes, contemporaneamente messaggero degli dèi e dio dei ladri, famigerato per i suoi latrocìni, provvidenziale per i suoi messaggi istantanei. Già da tempo Hillman aveva parlato, a proposito della comunicazione istantanea instaurata dalla tecnologia digitale, di intossicazione ermetica. Ermes, il Trismegisto, è del resto anche dio dell’alchimia. Il nostro mondo, aveva diagnosticato Hillman, soffre di un eccesso di Ermes.
Con gli anni la colonnina di mercurio sale, a misurare la febbre epocale. Non siamo in condizione di pensare se non febbrilmente. Qualcosa – che sia l’avida necessità di un capitalismo mutante nella sua evoluzione tecnologica o il caso, che è Re della Storia – sottopone l’umanità produttiva a un superlavoro dickensiano, ponendola in uno stato di perenne urgenza, frapponendo tra gli esseri umani e i loro veri, importanti messaggi una barriera di comunicazione tanto fitta quanto fittizia.
Infliggendo un danno all’anima, individuale e del mondo, impedendo quel processo di fare anima, di «soul making», che Hillman riprendeva dalla celebre frase di Keats: «Chiamate, vi prego, il mondo “la valle del fare anima”. Allora scoprirete a cosa serve il mondo». Il mondo reale, non quello virtuale. L’officina alchemica del pensiero di Hillman non può più aiutarci, ma ci ha lasciato gli ingredienti per la guarigione.