Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  marzo 14 Giovedì calendario

Nove milioni di morti all’anno per l’inquinamento

Nove milioni di persone muoiono ogni anno per l’inquinamento: aria tossica, acqua contaminata, terreni rovinati dall’agricoltura industriale sono le tre cause principali. In questa ecatombe sono i più poveri a pagare i prezzi più pesanti in vite umane. Noi abitanti urbani dell’Occidente sviluppato siamo esposti alle malattie ambientali (anche noi respiriamo smog e mangiamo alimenti patogeni), ma molto meno. Chi vive di agricoltura e pesca, o nelle nuove megalopoli avvolte in nubi velenose – New Delhi ha superato Pechino in questa gara – è molto più vulnerabile. L’allarme viene da un rapporto di 250 scienziati di 70 Paesi, il sesto della serie Global Environment Outlook, presentato ieri a Nairobi all’assemblea Onu per l’ambiente. Questa messe di dati si aggiunge al monito lanciato in ottobre dalle Nazioni Unite: la comunità internazionale ha solo 12 anni a disposizione per limitare gli effetti catastrofici del cambiamento climatico.
Il divario ricchi-poveri è impressionante. Come spiega un altro rapporto, frutto della collaborazione tra la Rockefeller Foundation e la rivista scientificaLancet, «il 70% dell’umanità più povera dipende direttamente per la sua sussistenza dagli ecosistemi; perciò la rovina dell’ambiente li colpisce in modo sproporzionato». Nelle nazioni a reddito pro- capite medio- basso (l’insieme include Cina e India) l’inquinamento dell’aria supera i limiti respirabili secondo l’Organizzazione mondiale della sanità nel 90% delle città. I Paesi ancora più poveri, soprattutto in Africa, soffrono di un inquinamento ancora più mortale: tra le mura domestiche, per l’uso di sistemi di riscaldamento e cottura a base di legna e carbone. I pescatori del Sud del pianeta sono i più colpiti dalla caduta di biodiversità che riduce la fauna marina, e dall’invasione delle plastiche negli oceani. I contadini africani, asiatici e latinoamericani sono tra le vittime principali dell’erosione dei suoli, del degrado delle terre contaminate dai fertilizzanti chimici o dai pesticidi. La drammatica asimmetrìa tra “noi” e “loro” non significa che l’impatto dell’emergenza sarà indolore nelle zone più ricche. Tra i modi in cui lo shock si trasmette da una regione del pianeta all’altra c’è la migrazione da catastrofe ambientale. Questo dato è sempre nello studio Rockefeller- Lancet: nel 2016, ben 24,2 milioni di persone furono costrette a fuggire da 118 Paesi colpiti da siccità o alluvioni, catastrofi idriche. Un multiplo rispetto ai profughi che nello stesso periodo fuggivano da conflitti armati, guerre civili, violenze politiche: “solo” 7 milioni, meno di un terzo dei rifugiati da eventi climatici. Tra le calamità in agguato, il rapporto Onu aggiunge un nuovo tipo di emergenza sanitaria: «Le reti idriche contaminate ridurranno le resistenze ai microbi, questa diventerà una causa primaria di decessi, di calo della fertilità, e di danni allo sviluppo neuro-cerebrale dei bambini».
Quest’ultimo rapporto non è solo una collezione di allarmi. C’è una parte propositiva con soluzioni concrete, praticabili, dal costo non esorbitante. In alcuni casi addirittura il “fare la cosa giusta” per l’ambiente può ridurre le spese. Un esempio è la conversione delle ( cattive) abitudini alimentari. Gli scienziati calcolano che una dieta meno carnivora può ridurre del 50% i bisogni d’incremento della produzione alimentare, rispetto alle proiezioni per sfamare i 9 o 10 miliardi che abiteranno la terra nel 2050. Gli errori che paghiamo ogni giorno sono assurdi: un terzo di tutto il cibo commestibile viene distrutto, il 56% degli sprechi avviene nei Paesi sviluppati. Il rapporto invoca con urgenza un accordo mondiale per ridurre il flusso distruttivo di 8 milioni di tonnellate di plastiche che rovesciamo nei fiumi, nei laghi, nei mari. C’è un messaggio finale importante perché si rivolge al tema della sostenibilità politica e sociale, tra i più delicati. Le battute d’arresto – dall’elezione di Trump ai gilet gialli francesi; nonché i ritardi di Cina e India spaventate dal rallentamento dello sviluppo economico – sono legate all consenso. Il pianeta non sarà salvato dai milionari della Silicon Valley che comprano la Tesla elettrica da centomila euro. Ma «il costo di 22.000 miliardi di dollari per raggiungere gli obiettivi della conferenza di Parigi può generare benefici due volte maggiori, 54.000 miliardi di dollari». È questo che bisogna riuscire a spiegare, calandolo in esempi concreti e tangibili, anche per i ceti meno abbienti dell’Occidente.