Il Messaggero, 13 marzo 2019
Elena Santarelli parla del figlio malato. Intervista
«Nulla succede per caso. Come quando quel giorno ho sentito nello stomaco di andare a grattare in fondo su quelle cose che vedevo diverse in Jack. Qualcosa mi diceva Gratta! Gratta, che qualcosa trovi. Sarà stata mia nonna dall’alto». Era un anno e 4 mesi fa. Il giorno in cui Elena Santarelli ha scoperto che suo figlio Giacomo, oggi 10 anni, aveva un tumore cerebrale. Da allora ha deciso di mettere la sua notorietà a disposizione totale di Progetto Heal, onlus fondata da famiglie di bambini colpiti da tumori cerebrali e da medici, infermieri e biologi che operano a favore della cura e della ricerca nell’ambito della neuro-oncologia pediatrica, e che raccoglie fondi destinati alla ricerca attraverso il sostegno dell’équipe medica della dottoressa Angela Mastronuzzi, all’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma. Santarelli è portavoce, dedica ad essa ogni sua uscita pubblica e venerdì prossimo, 15 marzo, presenzierà all’inaugurazione della nuova sede a Sora, in provincia di Frosinone.
«Ho sfruttato la mia immagine per far conoscere l’associazione e raccogliere fondi. È indispensabile. L’anno scorso la Bobo Summer Cup ha donato più di 78 mila euro per il profilo di metilazione, un esame che permette di caratterizzare meglio il tumore, un esame costoso, che in Italia si fa solo al Bambin Gesù, e che vorremmo potesse essere offerto gratuitamente a bambini italiani con tumore cerebrale che ne abbiano bisogno. Anche le borse di studio sono pagate dalle donazioni: dalla logopedista, ai biologi, ai ricercatori, alla psicologa Alessandra Basso».
L’intervento della psicologa è importantissimo, vero?
«A me è servita per avere il giusto comportamento con mio figlio, nella comunicazione, nel controllo dei momenti più critici come la perdita di capelli, la rabbia: i bambini sono tutti molto arrabbiati, sa? A 4, 5 anni non capiscono ancora, la prendono quasi come un gioco. Ma a 10, per quanto la vita che facciamo sia la più bella e normale possibile, è comunque la vita di un bambino malato, e non posso negare che sia arrabbiato».
Come lo manifesta?
«A volte mi dice che palle!. I capelli che cadono, andare in ospedale per la chemio. Io mi ritengo fortunata, ma è difficile spiegare la fortuna che abbiamo avuto a un bambino di 10 anni. Lo capirà quando sarà grande».
Non è facile capirla neanche per gli adulti.
«Lo so. Molti mi prendono per pazza, non capiscono da dove arrivi la mia positività. Ma dietro di me ci sono mamme che, in silenzio – perché non sono famose e non possono dare voce a quello che stanno vivendo – affrontano cose che io avevo visto solo nei film o nelle peggiori puntate di E. R».
Giacomo a che punto è del percorso?
«Non lo dico finché non sarà alla fine. Anche per scaramanzia. Lo racconterò poi, per dare forza ad altre famiglie. E poi qualunque risposta genera falsi virgolettati su internet. Ho letto titoli come La Santarelli ha perso il figlio solo per qualche clic in più».
Quale titolo vorrebbe per questa intervista?
«Uno positivo. Non sono una che si piange addosso. Pochi hanno visto le mie lacrime. Se piango, poi, devo sempre andare altrove, a casa non si può».
Quando le diranno che Giacomo è guarito, piangerà?
«Penso di sì. Già solo al pensiero. Ma è un momento, poi esco sempre con il sorriso».
Come fa?
«La maschera del va tutto bene è pesante ma la devi portare per forza. A che serve condividere il fatto di avere una risonanza domani? Non lo dico neanche ai miei genitori. Basto io a non dormire da 7 giorni prima, perché dovrei essere egoista e fare stare male anche gli altri?».
Non può essere solo maschera questa, però.
«Ho carattere. A volte però vorrei sfogarmi, ma solo per essere ascoltata».
Riesce a farlo?
«In chiesa. C’è qualcuno che mi ascolta dall’alto, lì. Prego, c’è tanta gente che prega per Giacomo. La preghiera di gruppo è potente».
E la scienza?
«Mai messo in dubbio l’operato dei medici, la preghiera mi aiuta a tenere la mano a mio figlio».
A settembre ha ricominciato a lavorare, è su Rai1 con Italia Sì: l’ha aiutata?
«Sì. Per me è anche una distrazione. Ho ricominciato solo quando le chemio sono entrate in regime di day hospital e non in ricovero. Lo posso fare perché è il sabato, in diretta, e Giacomo non ha mai la chemio quel giorno. Se no, col cavolo che lo facevo».
La frase che direbbe a se stessa di un anno e 4 mesi fa?
«Disperati pure, perché è normale ora fare uscire dolore, rabbia e disperazione. Poi rimboccati le maniche, rivestiti del tuo solito sorriso, combatti, e affidati a questi dottori».