Corriere della Sera, 13 marzo 2019
I tormenti di Charlotte Gainsbourg
«Quella donna è un mostro, ma va capita», dice Charlotte Gainsbourg parlando del suo personaggio in La promessa dell’alba, il film di Eric Barbier in uscita giovedì. Un melò che attraversa i primi decenni del ‘900, ispirato ai mille saliscendi vissuti e raccontati dallo scrittore Romain Gary. Figlia dell’eccesso e di due genitori iconici, Serge Gainsbourg e Jane Birkin, Charlotte appare più morbida, meno inquieta dell’idea che si ha di lei.
Mostro perché?
«Perché Nina, così si chiama, è estrema, bizzarra, mai un dubbio su cosa sia giusto o sbagliato, beata lei! Nasce poverissima, ha un rapporto morboso e esclusivo col figlio, la sua ragione di vita. Ma è una madre single in un’epoca difficile, di lotte. Non puoi colpevolizzarla. Io credo di non essere così con i miei tre figli, anche se nel film mi sono ispirata alla mia famiglia».
Cioè?
«Mia nonna paterna lasciò la Russia per stabilirsi in Francia; Nina scappò dalla Polonia per andare a Parigi, ma è la stessa cosa. Ho mostrato le foto di mia nonna al regista, è stata un’esperienza immersiva, ho dovuto alcuni dialoghi in polacco. Come Meryl Streep in La scelta di Sophie? Non ci avevo pensato. Sono due film che parlano del tema di oggi, rifugiati e migranti».
Cosa pensa della Francia di Macron, i gilet gialli…?
«Non capisco cosa succede, non ne faccio parte. Da oltre 4 anni vivo a New York».
Perché?
«È stato un modo per ritrovarmi dopo la morte di mia sorella Kate (probabilmente un suicidio, il padre era il compositore John Barry, ndr). La gente mi chiedeva ogni giorno, insistentemente, di questa tragedia. È stato diverso rispetto a quando, a 19 anni, ho perso mio padre: allora feci i conti con la perdita, e il dolore non se ne va, è rimasto dentro di me. Stavolta, per vivere la sofferenza, sentivo che dovevo sentirmi libera. A New York nessuno mi riconosce per strada. Non sono andata via per dimenticare, semmai è vero il contrario».
La perdita di suo padre la affrontò nella sua Parigi, senza mettere chilometri. Eppure ora non vuole più sentire le sue canzoni.
«Conosco ogni parola, le pause, i respiri. La radio trasmetteva le sue canzoni, era difficile evitare la sua voce. Ci sono cresciuta dentro. Adesso le trovo disturbanti, non so spiegarmi il motivo. I miei figli le ascoltano, è toccante».
Lei ha cominciato tardi le tournée come cantante.
«A 38 anni. Pensavo di non avere sufficiente talento per esibirmi dal vivo. La stessa cosa accadde ai miei genitori, hanno avuto una carriera da studio di registrazione. Il palcoscenico non faceva parte del mio lavoro».
Si è trasferita a New York.
«Quando arrivai c’era Obama. Vivo al Greenwich Village, c’è un’atmosfera diversa. Nel mio quartiere si vergognano di avere Trump presidente. Non so quanto vi resterò. Non mi sento di appartenere a una città, anche a Parigi non mi sento più a casa».
La ribelle è diventata nomade?
Ride: «Un po’ sì. Ma non mi vedo come una ribelle. Amo lottare, mettermi in discussione. Ho raggiunto una certa pace con me stessa, sono più sicura».
Viene da un film col suo compagno Yvan Attal.
«Il mio cane stupido, da una novella di John Fante. Uscirà a fine ottobre. È stato buffo recitare come marito e moglie. La disgregazione della famiglia attraverso l’amicizia con un cane che appare nella loro vita per caso».
Per tanto tempo si è sentita inadeguata…
«È un vizio di famiglia. Mio padre non si dava arie, diceva che la vera musica è quella classica, mia madre non si è mai vista abbastanza brava. Stiamo pensando a un progetto insieme».
Com’è diventata l’attrice di Lars Von Trier?
«Sono stata fortunata. Ha avuto fiducia in me e mi ha voluta in tre film. Pensavo di essere troppo normale per un regista come lui. Non parliamo molto. Lars sa tutto di me, io non so nulla di lui. È un rapporto a senso unico».