La Stampa, 13 marzo 2019
Metti l’opera in periferia
La ricerca del posto, alla periferia di Birmingham, una città dove è brutto anche il centro, è piuttosto laboriosa. Finalmente si scopre la Tower Ballroom, ex dancing, ex ring per la boxe, adesso teatro lirico effimero. E sei subito in un film di Ken Loach, una balera con i graffiti alle pareti e la working class con la birra in mano. Poi inizia Una
Lady Macbeth di Mcensk di Sostakovic e fai un salto quando il tuo dirimpettaio inizia improvvisamente a cantare.
Eh, già. Ricordate il famigerato e memorabile Stiffelio «in piedi» al Farnese di Parma? Verdi con coristi e cantanti in mezzo agli spettatori deambulanti, mentre la quarta parete cade e l’emozione s’impenna? Alla Birmingham Opera Company non è l’eccezione, ma la regola. Qui da anni lo stesso regista, Graham Vick, porta l’opera in mezzo alla gente, e due volte: perché fra palco e platea non c’è più stacco e perché l’opera non si fa più al teatro dell’opera (che peraltro non c’è). Allunghi una mano e i personaggi li tocchi, magari ti arriva pure qualche spruzzo della loro saliva, sono carne e sudore, non solo voce. «Tutto il mondo è un palcoscenico e gli uomini e le donne sono soltanto attori», diceva qualcuno che di teatro s’intendeva. Del resto, Stratford-upon-Avon è a mezz’ora di macchina da qui.
Esperienza comunitaria
Quindi non vai all’opera: ci entri. Non la vedi, la vivi. Ma è anche un’esperienza comunitaria, un esperimento sociale e un’iniziativa educativa. I coristi sono dilettanti che in sei settimane hanno imparato la parte. Invece sono professionisti cantanti e orchestra, eccellenti gli uni e l’altra, la City of Birmingham Symphony diretta da Alpesh Chauhan, bravissimo. Naturalmente il genio di Vick non si esaurisce lì, nel metterci «dentro» lo spettacolo, che invece straborda di idee ed esalta il grottesco di Sostakovic.
La trama è nota: lei è una casalinga disperata di provincia, con un marito impotente e un suocero autoritario e lubrico. S’innamora del solito stalliere, uccide marito e suocero con il veleno per topi e finisce in Siberia. E qui Vick si scatena. Prendete la famosa notte d’amore, quella che scandalizzò tanto Stalin. Loro due sono lì, nel lettone in mezzo a noi, di un realismo impudico e imbarazzante come la musica di Sostakovic che racconta il sesso più travolgente della storia dell’opera: ma intanto i figuranti gonfiano beffardi un palloncino rosso e lo liberano in aria proprio sull’orgasmo-dissonanza finale.
E poi: coristi-topi come un’umanità formicolante e impazzita, il matrimonio di lei con il toyboy con un’irruzione di spose insanguinate tipo Lucie di Lammermoor stravolte, e una recitazione, di tutti, non da film come si dice di solito, ma da film che vince l’Oscar. I solisti sono ideali anche fisicamente (ma la protagonista, Chrystal E. Williams, canta pure benissimo), l’amante tenore con la faccia da attore porno e lo slip leopardato, perfetto. Quel bolscevico di Vick gode nel mettere la faccia della Thatcher sull’icona o nel ribaltare gli stereotipi razziali: i padroni borghesi sono tutti neri, lo stallone proletario l’unico bianco.
E allora si scopre che l’opera si può fare anche fuori dai teatri, senza velluti e sciure in pelliccia che escono dalla loro milionesima Bohème, peraltro uguale alle 999.999 precedenti, dicendo che è stata così bello perché hanno pianto tanto. Anzi, si deve fare anche lì, fuori dai teatri. Per trovare un nuovo pubblico, che magari l’opera non sa neanche cosa sia però si fa subito catturare appena gli fai scoprire che non sono solo vecchie storie né storie per soli vecchi, ma la carne e il sangue di cui siamo fatti.
Choc contemporaneo
Perfino in Italia c’è qualcuno che l’ha capito, magari «mettendola giù» in maniera un po’ meno ideologica e punitiva dei concerti nelle fabbriche dei cupi Anni 70. L’Opera di Roma, per esempio, ogni estate carica una produzione «ridotta» su un camion e la manda per periferie pasoliniane o paesotti di provincia. Si chiama OperaCamion e ha un gran successo. E venerdì prossimo, a Milano, debutta allo SpazioTeatro 89, altra periferia, il Rigoletto di VoceAllOpera, che il giovin regista Gianmaria Aliverta trasforma in un travestito che procaccia escort al Duca di Mantova, per restituire alla contemporaneità lo choc del grottesco di Hugo e di Verdi. Speriamo che qualcuno se ne accorga. La terra non è piatta e non si casca nel vuoto appena usciti dalla Scala e passata la cerchia dei Navigli. Anche al di là c’è vita, e perfino opera.