La Stampa, 13 marzo 2019
Parla il marito della prof che avuto un figlio da un quindicenne
Il marito ha scelto di restare accanto alla moglie anche dopo l’ultimo terremoto. E il bimbo che stanno crescendo da cinque mesi, ribadisce, «è mio figlio nonostante quello che ci sta capitando. Non cambierò la nostra vita, voglio che resti con noi e con suo fratello». Lo ripete sebbene il test del Dna eseguito nelle ultime ore dica il contrario. E cioè che il padre naturale è uno studente oggi quindicenne, con il quale sua moglie di 35 anni ha avuto una lunga relazione poi rivelata in famiglia.
«I miei e mio marito – scriveva infatti su WhatsApp al ragazzo nel gennaio di quest’anno, dopo aver partorito - sanno già tutto, puoi dire ciò che vuoi…». Si esprimeva così quando nel ragazzino erano affiorati tormenti ingestibili, e di lì a poco i parenti del giovane avrebbero presentato denuncia in Procura a seguito della quale la donna è stata indagata per abusi sessuali.
Ma il nodo più drammatico riguarda ciò che deriverà dal disvelamento della storia: può bastare, la volontà del coniuge di rimanere papà di quello che credeva essere uno dei suoi figli e invece non lo è? A chi sarà affidato il neonato, una volta che gli accertamenti giudiziari saranno perfezionati? È improbabile che possa rimanere nel nucleo attuale, in un cortocircuito di burocrazia e sentimenti destinato a destabilizzare le vite di troppe persone.
Escluso al momento che il marito stesso chieda il disconoscimento del piccolo, lo potrebbe fare il pubblico ministero, sia in autonomia sia su istanza dei tutori, quindi i genitori del padre naturale essendo questi minorenne. E una volta che la paternità ufficiale fosse annullata, sempre l’adolescente tramite i familiari avrebbe il diritto di veder riconosciuta la propria. Si concretizzerebbe tuttavia un nuovo dubbio: chi dovrà accudire il bambino? Con buone possibilità la donna che lo ha dato alla luce – sarà fondamentale pure il verdetto di psicologi e giudici minorili – e in maniera condivisa all’adolescente, senza che ci siano «commistioni» tra genitori.
Le parole spigolose delle procedure giudiziarie rendono l’idea di quanto sia diventato drammatico il caso di cui a Prato parlano ovunque. «C’è da vergognarsi», la sentenza emessa al buio dai clienti usciti da un market in piazza San Marco, mentre le ultime quarantott’ore e il racconto di due testimoni rischiarano una sequenza da agganciare alla primavera 2017. In quel momento inizia la frequentazione tra lei, «operatrice socio-sanitaria» che lavora in una struttura della zona, e il ragazzino. Ha conosciuto sua madre in palestra, affiora qualche intoppo scolastico dell’adolescente e iniziano le ripetizioni d’inglese, quando non ha ancora compiuto 14 anni (è un’aggravante). Di certo a casa dello studente, poi il rapporto si consolida e gli incontri avvengono altrove.
All’inizio del 2018 lei resta incinta e continuano a vedersi. «Ci disse che il figlio era d’un ragazzo al quale faceva lezione» ammettono le conoscenti dell’infermiera, entrate nell’indagine. La gravidanza si conclude nell’autunno del 2018 e la relazione sta precipitando. Lui, ora quindicenne, è turbato, distante: «Se mi lasci dico che il figlio è tuo» scrive la donna. Ma il percorso è segnato, i ruoli quasi si ribaltano, forse il ragazzino lascia intuire che ne parlerà a chi gli sta vicino. E così nel gennaio 2019 di nuovo l’infermiera inoltra il messaggio WhatsApp scoperto in queste ore: «Mio marito sa già tutto, puoi dire quello che vuoi…». È possibile che i legali della donna chiederanno di ascoltarlo. E non va dimenticato che se fosse provata la piena consapevolezza della paternità prima del parto, per l’infermiera gli addebiti lieviterebbero. L’altro ieri ha ricostruito tutto in un’audizione secretata, ieri invece è stata sentita la mamma dell’adolescente: «Siamo sconvolti, fino all’ultimo speravamo non fosse vero, che il test desse un responso diverso».