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 2019  marzo 13 Mercoledì calendario

Intervista a Giuseppe De Rita

«Lei vuol sapere quando gli italiani hanno spezzato il legame con la storia? È accaduto quando hanno rinunciato al futuro. Anzi, abbiamo smarrito il futuro prima ancora del passato. Ed è un bel guaio». Nel suo villino del Censis, a 86 anni Giuseppe De Rita continua a esplorare l’autobiografia nazionale: senza sconti, con il consueto acume, con la passione autentica di chi ha vissuto quel miracolo economico che è all’origine dei vuoti di memoria. Alla società italiana rattrappita dal "presentismo" ha dedicato di recente anche un saggio scritto con Antonio Galdo: Prigionieri del presente (Einaudi). E ora aderisce alla campagna a favore della storia, cominciata su Repubblica con un’inchiesta sul crollo degli insegnamenti all’università e l’appello rivolto da Liliana Segre al ministro dell’Istruzione Bussetti perché ripristini la disciplina nelle prove scritte della maturità. «Senza passato non c’è futuro. E il futuro ce lo siamo persi da un bel po’. Nessuno scrive più di fantascienza o fa previsioni a vent’anni».

La perdita del futuro fa anche più paura.
«Politicamente è più pericolosa. La gente si mobilita se c’è lo sviluppo, se c’è l’industrializzazione, se c’è un movimento per la difesa dell’ambiente: altrimenti c’è il reddito di cittadinanza, che non è proprio eccitante».
La programmazione, l’organizzazione del futuro, è stata anche il suo mestiere.
«Sì, per un bel pezzo della mia vita ho fatto piani e previsioni. A un certo punto ho avvertito che fare programmazioni a quindici o a dieci anni non interessava più a nessuno. Lei se l’immagina un ministro dell’Istruzione che mi coinvolge in un piano per lo sviluppo della scuola? Lo fece Giuseppe Medici nel 1959: da quel progetto sarebbe nata la scuola media per tutti gli italiani».
E questa perdita del futuro precede quella del passato.
«Sì, più o meno coincidono. E gli effetti si manifestano drammaticamente oggi. Abbiamo perso la storia per due motivi opposti. Il primo è che ciascuno di noi non ha più nozione del tempo alle spalle, oltre quello della propria vita. Il secondo è che gli storici hanno esagerato nella moltiplicazione».
Fermiamoci al primo motivo. Perché non riusciamo ad andare oltre i nostri ricordi personali?
«Bisognerebbe chiederlo a uno psicoanalista. Buona parte degli italiani ha famigliari all’estero, emigrati in situazioni drammatiche. Ma quanti se ne ricordano? Ne è rimasta traccia in canzoni come Lacreme napulitane. Probabilmente i nipoti di quei lavoratori che cantavano "i’ so’ carne ‘e maciello, so’ emigrante" sono ultrà nella curva dello stadio San Paolo. O sono omertosi verso il caporale che sfrutta i nordafricani nei campi agricoli».
Quando abbiamo smesso di trasmettere la memoria?
«Io sono nato nel 1932, i miei primi ricordi risalgono all’estate del 1940, alla dichiarazione di guerra di Mussolini. Se devo andare più lontano, mi aggrappo ai racconti di mia madre. Ma buona parte dei ragazzi di oggi i ricordi della madre non li sta neppure a sentire».
Quindi è stata la generazione figlia del boom a interrompere la trasmissione di memoria?
«È accaduto prima. Lo devo ammettere con qualche difficoltà, essendo stato un grande cultore dello sviluppo: è stato con il miracolo economico che la gente ha cominciato a farsi travolgere dal presente, a stare dentro la trasformazione. I miei nonni dovevano imbarcarsi su un bastimento per andare a lavorare in America, mentre alla mia generazione è bastato salire su un treno verso il Nord: il nostro mondo è diventato quello dove siamo approdati, l’operosità febbrile di Sesto San Giovanni e dintorni. Non c’era più tempo per la nostalgia degli affetti perduti. Non si saliva al Nord cantando le canzoni del Sud, mentre i napoletani a New York continuavano a piangere "‘o cielo ‘e Napule, comm’è amaro stu ppane’"».
Vuole dire che negli anni Sessanta gli italiani hanno smesso di voltarsi indietro?
«Sì, perché sono sopraffatti dal presente e dai processi di sviluppo. Il contadino diventa coltivatore diretto. Il lavoratore dipendente mette su la sua impresa o fonda il suo laboratorio artigiano. Lo stesso De Rita, anche se la notte non dorme perché non sa come pagare gli stipendi, fonda il Censis. Sono tanti gli italiani che ce l’hanno fatta. E ora rimpiangono quel progresso che sembrava infinito: per sé e per i propri figli».
Da qui la nostalgia pervasiva di oggi, che contagia anche l’immaginario: penso anche al successo dei materiali Rai dell’epoca di Studio Uno e delle gemelle Kessler. Gli storici rilevano che mai in nessuna fase della storia d’Italia c’è stata questa nostalgia per il passato.
«È la nostalgia del momento in cui siamo entrati nella storia. La nostra è stata una generazione felice, che ha potuto fare il salto in avanti rispetto alla miseria degli avi contadini. L’attuale risentimento nasce in chi non ce l’ha fatta. O in chi teme che i propri figli non abbiano le stesse chances. Gli italiani hanno il terrore di scendere di un pianerottolo o anche di un solo gradino. E soprattutto stanno male nell’ascensore fermo».
Stiamo con la testa voltata indietro, ma cancelliamo la storia. Non c’è contraddizione?
«No, perché il nostro sguardo si ferma all’Italia del benessere, al paese della crescita di cui finiscono per avere nostalgia anche i giovani che non l’hanno vissuto. Oltre però non andiamo. Se oggi proponi ai coltivatori diretti un libriccino sulla civiltà contadina, ti guardano storto: non vogliono ricordare quando erano morti di fame».
C’è una relazione tra la rottura della linearità del tempo tra passato e futuro e il ripiegamento nell’individualismo?
«Sì, forte. Quella che ho appena evocato è l’Italia dell’epopea collettiva, quando gli imprenditori di Prato potevano permettersi di comprare una scultura di Moore da esporre in piazza San Marco, simbolo dell’orgoglio cittadino. Oggi ciascuno pensa a sé».
Lei racconta l’età dell’oro, con uno Stato che sostiene i processi di sviluppo industriale e sociale. Non crede che questo abbia avuto una ripercussione sul ruolo pubblico delle discipline? Voi sociologi ed economisti in prima fila, gli storici più in ombra.
«Lei si riferisce al gruppo che faceva capo a Pasquale Saraceno, una piccola schiera di sociologi che però non ha figliato. Oggi ce ne sono tanti, ma non si occupano di interpretare socialmente la realtà. Lo continuiamo a fare noi del Censis, senza molta concorrenza. E nessuno di noi ha fatto carriera universitaria. Il potere accademico ha seguito altri percorsi, con una moltiplicazione delle cattedre. E temo che nella storiografia sia accaduto lo stesso, con una dissennata parcellizzazione della disciplina».
Però oggi gli insegnamenti di storia sono precipitati.
«Ma sono calati anche gli storici capaci di una visione d’insieme: politica, economica, anche morale. Quanti sono gli studiosi in grado di elaborare una sintesi? Mi viene in mente quando nel 1967 redassi il primo rapporto del Censis sulla società . In America il presidente Johnson aveva chiesto una cosa simile, ma i suoi scienziati sociali gli dissero di no. Un giorno si affacciò al Censis uno di quegli accademici americani: voleva vedere come facevamo. "Ma chi ha scritto queste premesse?". "Io", risposi. "Lei deve avere un ego molto sviluppato". La sua era una critica. Veniva da una cultura in cui le discipline si dividono e sottodividono».
Lei sta dicendo che abbiamo bisogno di intellettuali dall’ego molto sviluppato?
«Sì. Gramsci sosteneva che l’egemonia non è altro che un’evoluzione generale della società, con una classe capace di attuarla. Oggi noi non abbiamo né classe né visione».