il Giornale, 12 marzo 2019
Intervista all’esperto di italiano Antonio Zoppetti
Ce l’ha a morte con tutte quelle formulette a effetto che si usano durante i convegni, da last but not least a best practices. E sospira a malincuore quando racconta del suo amato corso in Scrittura creativa che ora si chiama Storytelling. Antonio Zoppetti, leva 1965, esperto di lingua italiana, non è uno di quei puristi impolverati che parlano per passati remoti e odiano l’inglese a prescindere. Ma, questo sì, odia il modo in cui lo usiamo questo dannato inglese. Male e inutilmente.
Zoppetti, nel suo ultimo dizionario lei elenca le parole inglesi di cui ci infarciamo la bocca. Quante sono?
«Sono 3.600. Diciamo sugar free quando potremmo dire “senza zucchero”, snack per dire “spuntino”. E la cosa divertente è che solo il 36% degli italiani sa l’inglese. Meno sai l’inglese più lo devi ostentare, alla Alberto Sordi. E infatti in rete girano ancora dei video impietosi su Matteo Renzi».
Una scivolata che è costata cara a Matteo Renzi?
«Nella sua disfatta ha inciso anche il suo linguaggio. L’uso dell’inglese nel Pd era già iniziato con Veltroni che ha inseguito il motto di Obama, Yes, we can. Da lì è iniziato un percorso di linciaggio che poi è arrivato al jobs act e alle road map».
Di fatto negli anni la politica ha abbandonato il burocratese e il latinorum ed è passata all’inglese.
«Nel ’900 avevamo politici avvocati con formazione umanistica, oggi arrivano dal marketing. È cambiata la strategia, ora si appoggiano all’inglese ma resta la manipolazione delle parole e un’edulcorazione a effetto attraverso l’anglicismo. Il voluntary disclosure alla fine è un condono, il jobs act è una riforma del lavoro dietro la quale c’era anche l’abolizione dell’articolo 18 che era un tema scivoloso per la sinistra. La spending review dice il contrario di quel che in realtà è: significa spesa ma indica il taglio».
L’inglese rende i concetti più digeribili, più innovativi?
«Sa di modernità. Non solo nella politica. Il 50% dei neologismi sono in inglese, troppi. Dato allarmante, vuole dire che l’italiano non sta più evolvendo e non crea più nuove parole. L’Italia rischia di perdere il suo lessico. Eppure l’italiano resta la quarta lingua più studiata al mondo, lo stiamo depauperando».
Effetto collaterale della globalizzazione?
«Ni. Sicuramente l’espansione delle multinazionali e la lingua dei mercati inquinano le lingue di tutto il mondo, anche il cinese. Detto questo, la reattività di Spagna o Francia di fronte a questa invasione è molto diversa dalla nostra. Noi addirittura abbiamo dei collaborazionisti interni che si inventano parole inglesi o pseudo tali inutili, come navigator. Perché non diciamo orientatore?».
Intende il ministro Luigi Di Maio? Per questo gli ha scritto una lettera?
«Credo che sia arrivato il momento di sdoganare i nostri tabù, compresa la tutela linguistica. Ad esempio in Francia c’è la legge Toubon che tutela la lingua, così come si fa per l’arte e la gastronomia. Io vorrei rivolgermi alla politica per eliminare gli anglicismi dal linguaggio istituzionale, per rispetto agli italiani e per trasparenza. Ho scritto a Di Maio ma il messaggio è trasversale».
Meglio un Di Maio che parla inglese, seppure maccheronico, o una Lega che rispolvera il dialetto?
«I dialetti erano stati condannati quando si voleva unificare la lingua. Un tempo erano sinonimo di ignoranza, oggi il contrario. Alcune parole regionali stanno diventando nazionali».
Il suo elenco di anglicismi suona un po’ come un elenco di parole da bandire.
«Nulla di fascista, giuro. In passato, alla fine dell’Ottocento, tassarono le insegne dei negozi che non usavano parole italiane. Ma lo scopo era battere cassa, non tanto salvare l’italiano. All’epoca era il francese quello preso di mira. Il fascismo applicò una politica linguistica ostile, per motivi patriottici, alle parole straniere. Barbaro dominio, processo a 500 parole esotiche di Paolo Monelli, ristampato fino agli anni ’50, proponeva dei sostitutivi a tutti gli esotismi: autorimessa al posto di garage, farfallino al posto di papillon. Il fascismo creò degli elenchi di parole da bandire con i sostitutivi, tipo pallacorda al posto del tennis, parole che non hanno attecchito. Altre invece sono nate in quel periodo: la parola regista fu introdotta dal linguista Migliorini al posto di régisseur usato fino a quel momento. Anche la terminologia calcistica è stata italianizzata in quegli anni. La penality è il calcio di punizione, il corner è il calcio d’angolo».
Però l’inglese è più veloce, spesso sembra anche più efficace. È un’esigenza comunicativa.
«Sicuramente l’inglese è molto sintetico. Ma non è solo questo. Altrimenti non useremmo misunderstanding invece di equivoco, leader al posto di capo. Mission e vision non li usiamo per risparmiare la e finale. Preferiamo i suoni inglesi e abbiamo un complesso di inferiorità culturale. Manager si porta con sé l’efficienza americana e suona molto più importante di responsabile».
Ci vorrebbe una rivoluzione culturale?
«Sarebbe necessaria per cambiare questa strategia di dire le cose nuove in inglese e buttare via le nostre nuove parole. La politica ad esempio potrebbe organizzare una campagna per la tutela dell’italiano. Niente di repressivo, semmai per valorizzarlo. L’unico ambito in cui si è fatto qualcosa è la valorizzazione dei ruoli femminili. La Crusca ha aiutato a stabilire quali sono i femminili più corretti: sindaca, assessora e ministra. Non entro nel merito della questione ma a livello grammaticale non ha molto senso. Però lo stesso metodo si può applicare con l’inglese, almeno per mettere un filtro, per spronare a usare l’italiano. Io sto lanciando il movimento Attivisti per l’italiano».
Prima mi diceva che all’estero sono più moderati con l’uso dell’inglese?
«In Francia Macron ha dichiarato pubblicamente che adora la sua lingua, con molto orgoglio. In Svizzera hanno stanziato molti soldi per promuovere l’italiano con manifestazioni culturali e festival. In Germania le associazioni di consumatori hanno fatto pressione alle aziende perché utilizzino termini e marchi tedeschi».
E da noi l’Accademia della Crusca e la Treccani sdoganano «petaloso» e «Ferragnez».
«La Crusca ha un servizio di consulenza linguistica in rete dove è molto più elastica di tanti lettori bacchettoni e puristi. In queste consulenze, la storia di petaloso, seppure poetica, è una bufala. Alla maestra che ha inviato il tema del suo alunno, la Crusca ha risposto che è una parola coniata ma non è in uso. Non l’ha sdoganata. Idem Ferragnez. È solo una registrazione fatta dalla Treccani che individua neologismi che, come in questo caso, sono un usa e getta effimero, fenomeni temporanei che non dureranno. Così è stato anche per craxismo o per spelacchio, l’albero di Natale romano. In realtà per entrare in un vocabolario una parola deve sopravvivere almeno dieci anni».
I puristi erano contro i neologismi, lei però è come se fosse un purista anti inglese.
«I puristi volevano ingessare la lingua italiana a Dante, Petrarca e ai classici. I fratelli Verri dal Caffè fecero la famosa rinuncia all’Accademia della Crusca, accusandola di parlare la lingua dei morti. Loro aprivano a parole nuove, se italianizzandole potevano essere utili. Gli inglesismi nel 1990 erano 1.600, oggi duemila in più. Noi importiamo e non traduciamo. O peggio ancora, ce li inventiamo: slip, pile, footing».
Siamo riusciti a esportare qualche parola?
«Tante, nel Rinascimento eravamo noi il modello culturale. Nel Settecento la musica lirica era italiana e tuttora l’opera usa parole italiane. Oggi, a parte cappuccino ed espresso, nessuna delle nostre eccellenze si impone all’estero. Pensiamo a marchi come Slow food o Eataly: puntano a dire in inglese qualcosa di meramente italiano. E allora parliamo di italian design, fashion week. La nostra strategia per essere internazionali è dire tutto in inglese. Paradossalmente a New York nei ristoranti di lusso si dice vino, perché evoca l’eccellenza italiana, qui aumentano le insegne di wine bar».
Quale parola ci manca in Italia?
«Se ci manca o la si importa (bistecca deriva da beef steak) o si inventa un neologismo. Ad esempio la parola pomodoro: deriva dall’azteco tomatl, da cui tomato. In Italia abbiamo usato una metafora, il pomo d’oro. Di fatto creando una parola, secondo una strategia che ha fatto evolvere la lingua. Oggi se manca una parola, importiamo senza adattare».
E qual è una parola inglese fraintesa?
«Shopping. Da noi indica solo l’acquisto voluttuoso, per vetrine. Ma è anche la spesa al supermercato. Tablet indica in realtà anche una pastiglia, una tavoletta, per noi è solo tecnologia».
Aumentano le iscrizioni nelle scuole inglesi. È un eccesso o un adeguamento necessario?
«Più uno sa l’inglese meno lo mescola in modo scriteriato all’italiano. Non confondiamo la didattica, che va fatta in italiano, con l’apprendimento di una lingua, che va imparata. Il guaio è che i giovani iniziano a sapere molto bene l’inglese ma scrivono qual è con l’apostrofo. Io tengo dei corsi di scrittura creativa a ragazzi di 25 anni e vedo tante lacune grammaticali».
Che scuola immagina? Che metodo servirebbe?
«Io ho fatto dei lavori con i bambini e ho vinto il premio dedicato a Alberto Manzi. Tutti lo ricordano per Non è mai troppo tardi, la trasmissione in cui ha insegnato la lingua a tanti analfabeti. Lui lavorava anche tanto coi bambini per farli arrivare da soli al perché delle cose e li guidava. Apprendere le cose sul campo, da soli, porta a un apprendimento delle nozioni molto più radicato. Io ho applicato lo stesso metodo con le parole. Facevo scegliere loro una parola, definirla, disegnarla e raccontarla. Per loro è stato molto formativo».
Il mondo digitale è tutto inglese. Ma noi abbiamo avuto l’Olivetti e i primi calcolatori.
«Non solo. Noi abbiamo avuto Roberto Busa, di Gallarate, un gesuita filosofo che è stato il primo al mondo a creare un ipertesto. È andato a New York alla fine degli anni Quaranta a digitalizzare sulle schede perforate le opere di Tommaso d’Aquino. È stato il primo a usare il calcolatore vent’anni prima che Ted Nelson negli Stati Uniti coniasse il termine ipertesto. La terminologia informatica dell’Ibm fino agli anni Settanta era italiana: tabulatrici, schede perforate, periferiche, terminali. Tutto è stato sepolto da pc, hardware, homepage».
Chi secondo lei gioca bene con le parole e tiene vivo l’italiano?
«Dovremmo avere più Alessandro Bergonzoni e inventori di parole. Lui gioca e crea neologismi. La congiuntivite è la malattia di chi non sa i congiuntivi. Ecco, il neologismo deve appoggiarsi alla creazione spiritosa. Se facciamo traduzioni funzionali delle parole, spesso sono noiose, poco efficaci. Nino Frassica in tv era un massacratore della parola, ma ci giocava in un bel modo, intelligente».
Chi usa la lingua in modo fresco ma rispettoso?
«I traduttori di Charlie Brown. Torniamo agli anni Sessanta: gli autori di Linus dicevano che i bimbi andavano a scuola in torpedone, Linus aveva l’acquaplano. E poi in una vignetta si vedevano i bambini che davanti al fuoco arrostivano una toffoletta sul bastoncino. Nessuno sapeva cosa fosse. Era la traduzione di marshmallow, che non conoscevamo ancora. Ora, nei siti di ricette si parla di cotone dolce o toffoletta, nel film Willy Wonka se ne parla. La Treccani da un mese ha introdotto toffoletta tra i neologismi del 2018. Ecco, questa è una traduzione creativa».
La lingua elimina le parole che suonano male?
«Bello o brutto... Come diceva Giacomo Leopardi, sono solo l’uso e l’abitudine a fare il bello. Apericena è un’italianizzazione dal basso, al posto di happy hour. Colanzo, anche se è brutto, sta prendendo il posto dell’inglese brunch».
Che lingua parleremo?
«Vi dico come sarebbe: immaginiamo in italinglese il Passero solitario di Leopardi. Suonerebbe così: D’in sul top dell’old sky line, passero single, a la campagna twittando vai nella deadline del giorno. Che dite? Vogliamo ibridare l’italiano e parlare così o ci teniamo le nostre parole?».