Corriere della Sera, 12 marzo 2019
Ugo Ciappina, l’uomo del colpo di Via Osoppo, si racconta
«Se per caso ho commesso un errore nella mia vita, è stato quello di non aver mai lavorato da solo. L’avessi fatto, sarei ancora un incensurato. Ma in una rapina, non puoi lavorare da solo: te ne servono almeno altri due, e sono già troppi... Allora, le metto su il caffé? Lo preparo solo per lei, a me basta quello preso a colazione. Ci vuole un’enorme disciplina, specie alla mia età: non posso sgarrare... Ma dov’è la moka? Ascolti, non la trovo... se si accontenta, ho il caffé solubile».
Ugo Ciappina, novant’anni compiuti il 9 giugno, indossa pantaloni blu chiusi da una cintura nera, e una canottiera bianca; è a piedi nudi; i capelli sono sempre gli stessi, quelli folti delle fotografie dell’epoca; adesso, sono arruffati e bianchi: prima di rispondere al citofono e invitare a salire («Le lascio la porta aperta, così capisce dove deve entrare e non fa casino sul ballatoio»), era a letto a leggere. Sul letto ci sono tre differenti paia d’occhiali; vicino al cuscino c’è un trattato sul corpo umano. Ciappina, origini calabresi e milanese di Porta Vittoria, dove vive dalla nascita, è stato ed è tantissime cose. È stato un partigiano dei Gap e un prigioniero dei nazisti, rinchiuso a San Vittore e torturato («Dolori immani senza aprire bocca»). È stato ed è un’icona della malavita, perché figura fondamentale nella pianificazione e nell’esecuzione anchedell’assalto in via Osoppo, il 27 febbraio 1958, un furgone portavalori, mezzo miliardo di lire di bottino, i «sette uomini d’oro» della banda, i quotidiani impazziti, le indagini serrate, gli italiani col fiato sospeso (tifando per i malviventi e sognando il denaro), la grande caccia, gli arresti, un momento a suo modo unico, irripetibile della storia di Milano e d’Italia, avendo segnato una cesura netta tra la classica rapina e lo spettacolare attacco. E poi è, Ugo Ciappina, un integralista cultore del silenzio: non aveva mai parlato, corteggiato dalle case editrici ma rifiutando, a differenza dei complici, di scrivere libri, e inseguito dai giornalisti, compresi quelli che, offendendolo, gli hanno mostrato dei soldi perché regalasse loro qualche frase. Li ha cacciati via tutti. Figurarsi, aveva taciuto davanti alle bastonate in faccia dei tedeschi...
Adesso, nel suo piccolo trilocale, Ciappina parla con il Corriere.
Un vecchio palazzo. La porta d’ingresso è di legno e affaccia sul bagno e la cucina, che si sviluppano in lungo; a sinistra, la camera da letto e un salotto. Tutte le finestre dell’appartamento sono chiuse. Per disordine, il trilocale somiglia a quello di uno studente universitario. Tazzine, piatti, posate, tovaglioli fuori posto, e ritagli di giornale, flaconi vuoti, carte. «Scelgo un giorno alla settimana e sistemo. Me lo posso permettere, il disordine. Vivo da solo. Mia moglie è morta anni fa. Altre storie d’amore? Non programmo. A volte capitano: fidanzate e amanti. In media, dura un annetto, dopodiché si stanca lei o mi stanco io. Le mie giornate? Esco, cammino. Se capita, parlo con qualcuno appena conosciuto. In realtà non parlo, mi piace ascoltare e osservare». Quel libro sul corpo umano... «Infatti. In quest’ultimo periodo, sono appassionato dei segreti del cervello. Non si finisce mai d’imparare». Per i lunghi minuti della conversazione, Ciappina rimane in piedi, appoggiato al piano della cucina. Qui ci sono due fogli appesi al muro: sopra il primo, c’è l’elenco delle nove pastiglie da prendere ogni giorno; sul secondo, c’è una scritta: «Ricordati di spegnere lo scaldabagno». Fosse un interrogatorio, Ciappina non rivelerebbe nulla di sé. Il respiro controllato, nessun gesto a tradire un’emozione: non cambia posizione, non accarezza il naso, non pettina i capelli, non si china a tirar su un calzino. Il tono di voce è lento, monocorde, e privo di volgarità. Quanti ne ha vissuti, di interrogatori? «Non erano interrogatori, erano massacri. Botte da orbi della polizia». E i carabinieri? «Ah, peggio ancora. Andavano avanti per giorni. Erano convinti che a furia di pestarti, confessavi anche i reati che non avevi commesso. Una violenza inaudita, per carità figlia di quei tempi, e un’ignoranza totale nell’imbastire il rapporto tra sbirro e malavitoso... Ma tanto, alla fine, c’erano i banditi che cantavano comunque... La prima sberla e subito a confessare... Lo sa perché voi giornalisti non mi piacete? Perché romanzate, non scrivete i fatti così come sono... E i fatti sono banali: uomini che non fiatano e uomini che non reggono. Punto. Semplicemente è così: se sei capace di soffrire, andrai ovunque».
Rapine e rivoluzione
Non ho mai ucciso e non ho mai rubato in casa, solo alle banche. Ho iniziato con le rapine per fare la rivoluzione
Sempre nella camera da letto, impilate sul pavimento, ci sono decine di libri. In maggioranza, polizieschi. «Sì, li leggo con piacere. Cosa dice, me ne vuole regalare qualcuno? Purché siano americani. Sono gli unici capaci di raccontare le dinamiche di chi commette il reato e di chi indaga. Cosa dice? Certo, McBain va bene. Ripeto, lasci perdere i libri non americani... Vanno sempre a cercare un taglio cinematografico... Io ho iniziato a rapinare con l’obiettivo di fare la rivoluzione... Adoravo i russi che facevano la rivoluzione, e nel mio piccolo provavo a imitarli». Che ne ha fatto del denaro? «Mah, non pensi che abbia accumulato dei tesori nascosti... Campo della pensione. Poca roba, ma c’è chi sta messo peggio di me. Per mangiare, mangio».
Sul tavolo, ci sono tre confezioni di ravioli acquistate al supermercato. «Non guardi quelle, solitamente cucino. Sono bravo, diciamo che mi difendo. La mia specialità sono le tagliatelle». Ciappina, sul serio non ha messo da parte niente? «Ho speso in viaggi. Sono stato ovunque. Tutta Europa. Il Sudamerica. Gli Stati Uniti in lungo e in largo». Con la moglie? «Ma no, quale moglie. Da solo». Nessun vizio? «Non he ho. Fumavo una quantità di sigarette... Bel piacere, però i danni era superiori al godimento... Non bevo, eccetto un bicchiere di rosso al giorno. Non gioco. Non scommetto. Non devo del grano a nessuno». Il grano... «In via Osoppo ero armato di mitra e gridavo: “Oh gente, fuori il grano...”».
Ugo Ciappina è uno specialista di armi e casseforti. «Specialista... Ero bravo a modificare le armi. Avevo costruito un silenziatore straordinario, per un mio mitra. Un lavoro di fino al tornio». E le casseforti? «Bah». Le casseforti? «Un conto era lavorare prima della fiamma ossidrica, quando ci volevano ingegno, abilità manuali, tecnica...». Lei ha ricordato la necessità della disciplina... «Disciplina fisica e mentale, anzi soprattutto quest’ultima: testa sgombra da pensieri». Com’era la vigilia delle rapine? «A letto presto». Nient’altro? «No». Parliamo dei suoi complici? «No». Ci sono dicerie, aneddoti... «No». Da chi ha imparato a rapinare? «Nel dopoguerra, giravo con bei personaggi». Erano criminali... «Erano vecchi che mi hanno insegnato il mestiere. Non ho mai voluto entrare nelle case a rubare. E non ho mai ucciso». Non è una giustificazione... «Ho vissuto la guerra, ho il massimo rispetto per la vita». Mai avuto figli? «Non li ho voluti. Sono stato diciotto anni in galera... Come avrei potuto insegnare la morale a un bimbo? Con quale coerenza? Sarebbe venuto su un balordo, mi avrebbe fatto disperare». La cercano ancora? «Chi?». Quelli che vogliono consigli. «Ma chi vuole che mi cerchi... Sono vicende del passato, finito da un pezzo. Sto invecchiando». Pensa alla morte? «No, chi se ne frega della morte». E la delinquenza di adesso? «Sono saltate le regole, sono saltati i codici di comportamento». Lei ha detto di aver commesso l’errore di non aver lavorato da solo; ma quali pentimenti ha avuto? «Lo stesso: avrei dovuto rapinare in solitaria. Ma è come con le rivoluzioni: non puoi fare a meno dei compagni, senza di loro perdi. È l’unico prezzo da pagare, anche se spesso ti frega».