Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  marzo 12 Martedì calendario

Se il cervello va a fuoco

Qual è la causa di maggiore disabilità nei Paesi ad alto livello di sviluppo? Verrebbe da pensare all’infarto, al cancro, all’ictus e malattie simili. Invece, secondo un recente rapporto dell’Organizzazione mondiale della Sanità, i danni maggiori alla capacità espressiva e lavorativa derivano dai disturbi mentali. In particolare, la sola depressione causa un danno sociale equivalente a circa il 4% del pil. Vale a dire che, se trovassimo una cura immediata e definitiva per questo disturbo, un Paese come l’Italia passerebbe dalla stagnazione a una forte crescita.
Purtroppo, però, dal punto di vista terapeutico la situazione è ferma agli Anni 80, quando vennero introdotti gli antidepressivi serotoninergici, così chiamati perché aumentano il livello della serotonina e di altri mediatori cerebrali nelle sinapsi, gli spazi di giunzione tra i neuroni. 
La teoria che manca
Tuttora, non disponiamo ancora di una teoria condivisa sulla genesi della depressione. L’idea che la carenza di serotonina ne sia la causa, perché in una discreta percentuale di depressi il suo aumento spesso migliora l’umore, è semplicistica. La depressione emerge come una manifestazione dovuta a cause molteplici e, quindi, va curata in modi diversi, non con una singola panacea.
Le ricerche scientifiche sulla depressione hanno fatto tornare alla ribalta un’idea non nuova, che ha però ripreso straordinaria vitalità, conquistando l’interesse degli studiosi: si tratta della teoria infiammatoria della depressione, descritta in maniera eccellente da Edward Bullmore, professore di psichiatria all’università di Cambridge, nel suo «La mente in fiamme», in questi giorni in libreria per Bollati Boringhieri.
I depressi hanno un maggior numero di infiammazioni, anche provocate da fattori psicosociali come stress cronico, avversità della vita e povertà, oltre che da eventi fisiologici come menopausa o invecchiamento. L’infiammazione attiva la risposta del nostro sistema immunitario, che cerca di distruggere l’elemento patogeno penetrato nell’organismo. Questa difesa naturale porta, però, alla produzione di prodotti di scarto che consistono in molecole proteiche chiamate citochine, le quali possono avere un’azione a distanza. Giungono a superare la barriera ematoencefalica e a intossicare il cervello, attivando le cellule della microglia (il sistema immunitario del cervello). A loro volta queste cellule rilasciano altre citochine, che vanno a danneggiare ulteriori aree del cervello.
Quando avviene questo processo, le connessioni si perdono o diventano più rigide, il rifornimento di serotonina a livello delle sinapsi viene perturbato e molti neuroni tendono a diventare più piccoli e a morire. In questo modo si può spiegare il collegamento tra infiammazione, depressione, perdita di memoria e gli altri problemi cognitivi che si riscontrano nei depressi.
Anche se ci sono ancora nodi da sciogliere, non sembrano ormai esserci dubbi sul fatto che infiammazione e depressione siano unite da un nesso causale e che in molti casi la depressione non derivi dalla riflessione sui propri problemi, bensì da una componente di carattere fisico. Sperimentalmente, un ratto a cui vengano iniettati batteri infettivi si ritira dal contatto sociale e si ritrova con il sonno e l’alimentazione disturbati, come accade agli esseri umani depressi. Potrebbe trattarsi di una risposta emersa nel corso dell’evoluzione, quando una malattia, in mezzo alla savana, costringeva il malato a ritirarsi e a usare tutta la sua energia per guarire. Molti studi dimostrano che l’aumento dell’infiammazione può precedere la depressione anche di anni. 
Il cambiamento di visione - osserva Bullmore nel suo interessante libro - non è una questione puramente teorica: la neuro-immunologia potrebbe offrirci in futuro nuovi approcci terapeutici, magari legati all’uso di anticorpi anticitochine. Si tratta di nuovi metodi di cura che saranno probabilmente meno invasivi di quelli attuali. 
Architettura e funzionalità
Gli studiosi sanno da tempo che attività come la psicoterapia, la meditazione, lo yoga, il tai chi e gli esercizi fisici quotidiani modificano la microarchitettura e la funzionalità del cervello, aiutando a gestire lo stress e rinforzando il sistema immunitario che produce effetti antinfiammatori. In questa direzione va anche l’alimentazione con almeno cinque porzioni di frutta o verdura al giorno, come ripete incessantemente l’immunologo Alberto Mantovani. 
Tuttavia, queste pratiche, certo salutari, nella maggior parte dei casi non sono sufficienti, perché la depressione è inibente e tende a generare paralisi motivazionale e inattività. Perciò si stanno cercando nuovi metodi di stimolazione diretta del sistema immunitario. Si tratta di una strada che ha già portato a buoni risultati in oncologia e che si sta rivelando sempre più uno dei fattori chiave della nostra salute psicofisica.