12 marzo 2019
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Biografia di James Pallotta
James Pallotta (James Joseph Pallotta), nato a Stoneham (Massachusetts, Stati Uniti) il 13 marzo 1958 (61 anni). Imprenditore. Fondatore, presidente e direttore amministrativo di Raptor Group. Socio ed ex vicepresidente di Tudor Investment Corporation. Dirigente sportivo. Comproprietario e presidente della Roma. Comproprietario dei Boston Celtics. «Se la domanda è “Preferisce guadagnare e non vincere il campionato?”, rispondo “No”. Però uno scudetto non deve per forza significare follia e bilanci malandati» • Robuste ascendenze italiane: padre abruzzese di Teramo, avi paterni umbro-laziali di Poggio Nativo (un tempo in provincia di Perugia, poi di Roma, infine di Rieti) e calabresi, avi materni pugliesi di Canosa di Puglia (un tempo in provincia di Bari, oggi di Barletta-Andria-Trani). «Io sono un italoamericano, ma mi considero molto italiano. Mio padre mi ha sempre detto “Tu sei prima di tutto italiano”» • «Il tempo corre indietro ai primi decenni del secolo scorso, quando il 18enne Carlo Di Giacomo lasciò Canosa per fare fortuna negli States. Si trasferì a Boston, dove, anni dopo, diede i natali ad Angela Maria Di Giacomo, per tutti Angie. Angie conobbe Jimmy Pallotta, altro figlio del Sud Italia. […] E dalla loro unione nacque James» (Pasquale Caputi). «Le due sorelle di James, Carla e Christine, oggi sono proprietarie di un ristorante italiano nel North End, il quartiere italiano di Boston, dove i tre Pallotta sono nati e cresciuti» (Riccardo Loria). «Fin da piccolo ha avuto la passione per il basket: John Havlicek e Bill Russell i suoi idoli, che guardava dai posti meno costosi del Garden, l’arena dei Celtics» (Roberto Zanni). «Si è laureato alla University of Massachusetts e ha poi conseguito (nel 1981, a soli 23 anni) il master in Business Administration alla Northeastern University di Boston. Da lì è partita la sua carriera di analista finanziario, prima per la Essex Investment Management e poi (il salto di qualità) per la Tudor Investments, società da 15,4 miliardi di dollari con sede a New York. Pallotta si impone così come uno dei top hedge fund manager degli Stati Uniti» (Loria). «Nel 2004, al massimo della bolla speculativa, gestiva un fondo dal nome simbolico, il Raptor Global, garantiva ai suoi partner ritorni sugli investimenti nell’ordine del 20 per cento all’anno e incamerava uno stipendiuccio di 194 milioni di dollari. Quattro anni dopo, con la crisi finanziaria, il Raptor Global è saltato. Non che Pallotta sia finito sul lastrico. Previdente, si era comprato una villa di 22 stanze su un’area di 27 acri a Weston, nei sobborghi chic di Boston. Nel 2009 il finanziere è tornato in attività negli hedge fund con il Raptor Evolution, accreditato di una massa gestita di 11-12 miliardi di dollari. […] Ha partecipato nel 2002 all’acquisto dei Boston Celtics (National basketball association) con un quota di 20 milioni di dollari sui 360 milioni di investimento complessivo. […] La squadra era in declino dopo gli anni trionfali di Larry Bird. […] Il titolo Nba è arrivato nel 2007/2008» (Gianfrancesco Turano). «Alta finanza e sport, […] soprattutto basket. […] Ma aveva già tentato di fare la sua scalata alla Roma […] dopo il tentativo fallito di Soros» (Zanni). «Avevo seguito l’affare Roma dopo il fallimento della trattativa con Soros. Poi, per la crisi economica decisi di rimandare. Ma appena Tom DiBenedetto mi ha parlato della sua proposta ho deciso di fare la mia parte, anche perché conoscevo già il progetto». «Quando […] abbiamo pensato di investire in un club, l’unica opportunità era la Roma. Nel senso che la città aveva un nome e un’immagine conosciuti in tutto il mondo. Quello che si dice un global brand, molto attraente. Le altre società o erano nelle mani di una famiglia, come Juve, Inter, Napoli, Fiorentina, o mancavano di internazionalità». Pallotta fece infatti parte della cordata di imprenditori statunitensi, guidata da Thomas DiBenedetto e composta anche da Richard D’Amore e Michael Ruane, che nel febbraio 2011 avviò le trattative per l’acquisto della società capitolina, concluse poi il 16 aprile successivo con l’acquisizione da parte della DiBenedetto As Roma Llc del 60% delle quote: il restante 40% rimase infatti inizialmente a Unicredit, «arbitro, guardalinee e quarto uomo nell’ultimo match della famiglia Sensi, distrutta nel patrimonio da 18 anni di grandeur calcistica» (Turano). La carica di presidente fu inizialmente ricoperta, secondo gli accordi, da DiBenedetto, ma ben presto a emergere quale «socio forte», in quanto maggiormente dotato di liquidità, della cordata fu proprio Pallotta, che già nel dicembre 2011 realizzò un «“piccolo colpo di stato” (copyright UniCredit) […] nel consiglio d’amministrazione del club: fuori i due soci vicini al presidente (Ruane e D’Amore), dentro i due manager più fidati di Pallotta, Mark Pannes e Brian Klein. Il primo – che ha ereditato tutte le deleghe in possesso di DiBenedetto, degradato a presidente di rappresentanza – è il suo braccio destro da anni; il secondo è un compagno di investimenti e, soprattutto, un guru del soccer americano. […] Non si può negare nemmeno che tra DiBenedetto e Pallotta ci siano state incomprensioni. Sullo stipendio che il primo si sarebbe voluto dare, […] sugli uomini da piazzare nel cda al posto degli uscenti, sulle quote da versare per l’aumento di capitale. […] Pallotta ha vinto su tutta la linea. […] Come ha fatto? Il consenso per James Pallotta è pressoché unanime dentro la Roma. Praticamente, si sono schierati tutti con l’azionista dei Boston Celtics. Franco Baldini, per dire, ne è rimasto stregato. E UniCredit ha fatto il tifo per lui fin dall’inizio della trattativa: se Pallotta si fosse sfilato dalla cordata, la banca avrebbe fatto saltare la cessione» (Alessandro Catapano). La situazione evolse rapidamente nei mesi successivi, fino al 27 agosto 2012, quando Pallotta subentrò ufficialmente a DiBenedetto quale presidente della società, della quale nell’agosto 2014 avrebbe poi acquisito il controllo totale, rilevando le quote ancora detenute da Unicredit. Da allora, dopo una stagione di assestamento (2012/2013, chiusa al sesto posto in campionato), grazie a una accorta gestione patrimoniale e sportiva la Roma si è affermata come una delle migliori squadre italiane ed europee, attestandosi regolarmente o al secondo (2013/2014, 2014/2015, 2016/2017) o al terzo posto (2015/2016, 2017/2018) in campionato, e riuscendo quindi ad accedere agli incontri di Coppa dei Campioni, senza tuttavia riuscire ad ottenere alcun titolo, né a livello nazionale né a livello internazionale, e vedendo avvicendarsi in panchina ben sei allenatori (Zdeněk Zeman, Aurelio Andreazzoli, Rudi Garcia, Luciano Spalletti, Eusebio Di Francesco, Claudio Ranieri), oltre a «decine di dirigenti (tra addetti al progetto stadio e marketing), centinaia di calciatori venduti e acquistati, milioni di plusvalenze, una finale di Coppa Italia persa contro la Lazio e […] un progetto stadio che fatica a imporsi. A questo va aggiunto l’addio al calcio – tra le polemiche – di Francesco Totti, che ha reso Pallotta (assieme a Spalletti) l’artefice di un congedo giudicato per qualcuno prematuro e per altri gestito in maniera troppo superficiale e approssimativa. Vanno ricordate anche le sue dichiarazioni infelici, che non lo hanno reso uno dei presidenti più amati della storia: dai “fucking idiots” indirizzato ai tifosi della Curva Sud colpevoli di aver esposto uno striscione contro la madre di Ciro Esposito nel 2015 alle retromarce dopo alcune dichiarazioni scomode. Da uomo-business, Pallotta ha sempre delegato la gestione del club a persone giudicate universalmente competenti: […] Sabatini e […] Monchi hanno avuto un’enorme responsabilità non solo nell’acquistare calciatori, ma anche nel decidere la guida tecnica. Non avendo conoscenze profonde di calcio, Pallotta non può far altro che fidarsi, ma […] dopo il disastro di Cagliari [il 2-2 rimediato l’8 dicembre 2018 contro il Cagliari ridotto a soli nove giocatori – ndr] il presidente ha pensato seriamente di passare la mano, di dire basta con la Roma, di tirarsi fuori il più presto possibile da un business che potrebbe creargli solo problemi. Rabbia comprensibile, figlia anche di una passione che con gli anni è emersa, lo ha coinvolto e si è consolidata, […] ma che difficilmente lo farà andare oltre il pareggio di bilancio» (Gianluca Lengua). Nel dicembre 2018, Pallotta smentì indiscrezioni relative a una trattativa con un investitore arabo, cui avrebbe ipotizzato di cedere la società per 800 milioni di euro. «Troppi soldi? Non per l’investitore arabo, che secondo le stesse indiscrezioni avrebbe portato avanti una trattativa almeno fino a fine ottobre. Tutti gli indizi indicano il nome del principe saudita Bin Salman. Anche perché l’affare si sarebbe arenato in seguito alla notizia dell’uccisione in Turchia del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, nella quale è emerso il forte coinvolgimento del governo di Riad. […] Se non lascia, James sarà costretto a raddoppiare i suoi sforzi: c’è la forza economica e la volontà di farlo? Non è un mistero per nessuno che il progetto americano nella capitale sia legato a doppio filo alla possibilità di costruire uno stadio che aumenti stabilmente i ricavi del club. Possibilità che si è bruscamente ridimensionata a seguito dell’inchiesta di metà giugno che ha portato all’arresto di Luca Parnasi, il costruttore che con la società Euronova doveva realizzare la nuova casa della Roma. Pallotta non ha mollato l’osso. E sarebbe in procinto di acquistare per 100 milioni i terreni (a Tor di Valle) e il progetto dell’impianto [operazione poi effettivamente conclusa nel febbraio 2019 – ndr]. Una mossa che potrebbe anche essere funzionale alla sua intenzione di vendere. È ovvio che la Roma ha un valore con il piano per lo stadio ben avviato e un altro se l’intenzione di costruire l’arena giallorossa a Tor di Valle dovesse tramontare» (Tobia De Stefano). Particolarmente deludente si è finora rivelata la stagione in corso: già furente per l’umiliante cacciata dalla Coppa Italia inflitta per 7-1 alla Roma dalla Fiorentina ai quarti di finale (30 gennaio 2019), in seguito all’eliminazione da parte del Porto (3-1) agli ottavi di Coppa dei Campioni (6 marzo 2019) Pallotta, dopo aver aspramente contestato la gestione arbitrale («Nonostante ci fosse un rigore per noi, siamo stati derubati. Schick è stato atterrato in area: la Var lo dimostra, e non viene fatto niente. Sono stufo di questa merda. Mi arrendo. Non ho più parole»), ha esonerato l’allenatore Di Francesco, assumendo in sua vece Claudio Ranieri, e rescisso il contratto con il direttore sportivo Monchi, rimpiazzato da Frederic Massara. «Dai progetti internazionali per conquistare il mondo alla romanità più spinta come unica speranza per non affondare. È il percorso della Roma di James Pallotta, in una realtà bipolare. Si è partiti con gli accordi con Nike, Disney, Espn e l’archi-star Dan Meis al progetto stadio. Si è arrivati a chiedere il quarto posto al testaccino Claudio Ranieri, aumentando le responsabilità di Francesco Totti da Porta Metronia e recuperando un ruolo a Bruno Conti da Nettuno. Local mangia global. Ranieri ha firmato […] per la sua seconda avventura: un milione di euro per 12 partite e un miracolo da compiere, visto come sta la Roma: “Non ho dormito, ma sono felice. Ho parlato con la squadra: il momento è delicato, ma vedo la possibilità di tornare in Champions. Chiedo ai tifosi di stare vicino ai ragazzi”. […] Nel comunicato della società c’è una frase del garante Totti: “Abbiamo bisogno di mani esperte, in grado di guidarci. Mancano 12 partite, dobbiamo vincerne il più possibile”. È la mission chiesta da Pallotta: “L’obiettivo è finire più in alto possibile e andare in Champions League. Per questo abbiamo chiamato un allenatore che conosce il club, comprende l’ambiente e motiva i giocatori”. È stata anche la giornata dell’addio di Monchi, che ha transato l’accordo che lo legava alla Roma fino al 2021. […] Pallotta non ha speso una sola parola per Monchi, mostrando il veleno nell’addio. Il saluto a Monchi è toccato a Guido Fienga, il nuovo ceo» (Luca Valdiserri). «La strategia di questi anni, coprire le spese attraverso i 436 milioni di plusvalenze generati dalla compravendita di calciatori, ha, sì, portato la Roma stabilmente in Champions League, ma poco più. I "tituli", per dirla alla Mourinho, sono pari a zero, e lo scontento della piazza è montato dopo che l’ultima campagna acquisti ha portato alla vendita di Alisson, Nainggolan e Strootman e all’arrivo di una serie di giovani (Zaniolo e Kluivert) di talento ma con un presente tutto da sgrezzare. […] Il calcio italiano sta entrando in una nuova èra. Preso atto che il fair play finanziario è più simbolico che altro – basta qualche plusvalenza con i giovani del vivaio o una sponsorizzazione camuffata per aggirarlo –, pure da noi conteranno sempre "i quattrini" delle proprietà. E, se la Juve può essere considerata di un altro pianeta, a breve lo stesso discorso potrebbe riguardare anche Milan e Inter, che negli ultimi anni sono finite sempre dietro alla Roma. […] Insomma, la strategia delle plusvalenze, soprattutto se non hai più un ds alla Walter Sabatini che è capace di scovare campioncini in giro per il mondo, rischia di trasformare la Roma in una squadra da Europa League. Per questo Pallotta deve decidere al più presto cosa vuol fare da grande. Dovrebbe dire ai tifosi della Roma se è disposto a "combattere" con questi colossi o si è stancato e ritiene che il gioco sia diventato troppo grande» (De Stefano) • Pagina finora più memorabile della presidenza Pallotta, il trionfo della Roma sul Barcellona nei quarti di finale di Coppa dei Campioni (10 aprile 2018), valevole per la qualificazione alle semifinali (poi onorevolmente perse contro il Liverpool). «Sei sotto 4-1 e poi giochi la gara perfetta e vinci 3 a 0… È stata una di quelle partite che accadono poche volte» • Sposato, due figli maschi. «Il più grande si considera prima italiano e poi americano» • «A parte il calcio? "Ho molte passioni. Arte e musica. Sono cresciuto con le bande rock inglesi, Beatles, Stones, Clash. E non mi sono più fermato". […] E una cantina da sogno. "Sono un collezionista di vini. Non per soldi, ma per il piacere di aprire qualche bottiglia straordinaria tra amici. Mi piace condividere"» (Emanuela Audisio) • «Non possiamo diventare un top club senza avere uno stadio. Possiamo vivere grandi annate come la scorsa e passare periodi in cui facciamo bene anche in Champions, ma voglio diventare un top club non solo in termini di fatturato, ma come percezione generale. Servono più entrate. Per adesso penso che questa Roma sia da Top 20 in Europa sul campo, e già da Top 10 come idee fuori dal rettangolo di gioco». «La sindaca ha detto che per la fine dell’anno partiremo: si comincerà a scavare il terreno. Andiamo più veloci rispetto agli ultimi sette anni. Lo stadio è la chiave della crescita futura. Sarà di proprietà della Roma: la gente non lo capisce, pensa sia il mio giocattolo. Invece i ricavi andranno al club. Per crescere è tutta una questione economica: puoi essere il più bravo del mondo a scovare giocatori, ma poi il Barcellona ha un miliardo di ricavi all’anno» • «Il Financial Fair Play? A volte lo capisco e a volte no. Il presidente della Uefa, Čeferin, ha detto che si è chiusa la prima fase e che adesso si apre la seconda, che dovrà portare più equità nel mondo del calcio. Lo spero, perché la Roma ha sempre rispettato le regole» • «Andare alla stadio è una battaglia, perché le famiglie non devono avere diritto a uno spettacolo intenso, ma tranquillo. Ho letto il libro di Alex Ferguson: la parte più bella sono le bevute con gli avversari, a fine partita. È ingiusto che le società paghino il comportamento irresponsabile di un gruppo di tifosi. Chi urla bestialità, chi si comporta male deve stare fuori per sempre dallo stadio». «Preferisco che i tifosi se la prendano con me, ma supportino i giocatori. Non me ne frega niente, degli striscioni. Non ho mai pensato di mollare. So che lavoriamo solo per il bene del club. Quando andrò via io, verrà criticato qualcun altro» • «Qualche risultato lo abbiamo ottenuto, altri no. Avevamo l’obiettivo di valorizzare l’immagine della Roma per costruire un marchio globale: so che abbiamo commesso degli errori, ma in certi aspetti siamo andati anche meglio di quanto pensassimo. Da un punto di vista calcistico, centrare quasi sempre l’accesso alla Champions, senza introiti dello stadio, ci ha reso un brand sostenibile». «Il nostro è davvero un campionato difficile: guardo la Liga ogni tanto, e penso che ci sono una manciata di squadre che non vincerebbero una partita in Serie A. Ci sono squadre da noi che ti fanno sudare sperando di vincere la partita, e a volte ti ritrovi a pensare che aver pareggiato è stata una gran cosa». «Ragazzi come Zaniolo e Pellegrini sono intelligenti e maturi. Nella mia mente sono loro i futuri leader della Roma». «Quando sono in America seguo la partita da fanatico, mettendomi la maglia della Roma e trovandomi con un po’ di amici fidati. Ho un difetto: mi arrabbio. Ho giocato a basket, e non mi piace perdere: si possono avere i conti a posto, ma, se non vinci, non costruisci una leggenda».