Corriere della Sera, 12 marzo 2019
Nell’atelier di Roberto Pietrosanti dove dialogano memoria e creazione
Roberto Pietrosanti, artista, è nato all’Aquila.
Che cosa rappresenta per un artista il proprio atelier? Puro luogo di creazione? O spazio mentale, tana, rifugio, autentico confine tra invisibile e invisibile? Nel celebre dipinto di Gustave Courbet L’atelier il grande artista realizza un’allegoria del suo mestiere di pittore. Lo vediamo nel suo studio con intorno a sé alcune presenze allegoriche come la «nuda» Verità (una donna nuda, appunto) l’innocenza (un bambino) e numerose altre figure, a rappresentare il suo pubblico, fatto di committenti, letterati e filosofi.
Roberto Pietrosanti (L’Aquila, 1967) con la sua nuova mostra, proprio come fece Courbet ci conduce dentro il suo universo grazie a una monumentale installazione che ricostruisce simbolicamente il suo studio, e con esso il suo percorso di oltre trent’anni d’artista. Non a caso il titolo della mostra è Atelier Pietrosanti, quasi a voler definire concettualmente l’importanza del luogo della creazione, ma anche la ridefinizione critica del proprio lavoro, riflessione sul senso della memoria e occasione per una nuova narrazione inaspettata e densa.
«Il bilancio della vita si verifica all’uscita», recita un antico proverbio: lo sa bene Pietrosanti, che nel frattempo (e non a caso nella sua città natale, L’Aquila) ha voluto «fare il punto» del suo ricco percorso, quasi nella volontà di ritrovare qui, nella città che ancora porta le ferite del terremoto, un’evocazione di circolarità, tra legami con le origini e proiezione verso il futuro. Oltre trent’anni di attività racchiusi in una mostra nella sede della Fondazione Carispaq, Cassa di Risparmio del capoluogo abruzzese e aperta sino al 16 marzo.
Negli spazi di Palazzo dei Combattenti, appena restaurato, scopriamo collocati a terra modellini di opere, sculture, lavori su carta, pitture, grandi quadri, ambienti e progetti di interventi in spazi pubblici. Un percorso complesso, apparentemente distaccato nel suo essere memoria di un’esistenza, a tratti invece intimo, quasi segreto, in cui pittura, scultura e installazioni entrano in relazione: emerge la dimensione concettuale come l’elemento costante e unificatore.
Pietrosanti si muove su più territori, ibrida i linguaggi, declina, sempre con la stessa estensione narrativa, una visione rigorosa ed essenziale, visione che ritroviamo, in particolare, nelle sue opere monocrome e nel suo progettare in dialogo con lo spazio. È proprio nel confronto con l’architettura che opera l’immaginario dell’artista. Basta ricordare la sua personale Ara Pacis del 2012, scultura in grafite composita, installata davanti all’Ara Pacis a Roma o le Colonne in acciaio zincato collocate al Palatino, nel Foro Romano durante la mostra Post Classici del 2013, curata da Vincenzo Trione.
Il bilancio
L’artista fa i conti
con sé stesso proprio
nella città natale
La mostra è accompagnata da un ricco volume (Gli Ori, pagine 264, e 38) che, anche grazie a numerosi interventi critici (di Luca Presilla, Fabio Mauri, Ada Masoero, Barbara Rose, Emanuele Trevi, Vincenzo Trione, Francesco Moschini, Andrea Valcalda, Luca Ricci, Franco Purini, Marco Meneguzzo, Carola Giuseppetti, Marco Lodoli, Gianfilippo Mancini, Massimo Morasso, Camilla Balbi) rappresenta quasi una monografia ragionata su tre decenni del lavoro multiforme di Pietrosanti.
La sua attenzione per le installazioni ambientali è sottolineata anche da Barbara Rose: «Un precipuo interesse per la struttura è apparso evidente fin dagli esordi. La tradizione entro cui il suo lavoro si è sviluppato è quella innestata nel filone dell’avanguardia italiana da Lucio Fontana».
Ci sono alcuni punti sostanziali del lavoro di Pietrosanti, cicli diversi (ma sempre coerenti) che si snodano nel tempo disegnando una singolare mappa mentale. Così in mostra troviamo le tracce di tutti questi simbolici punti, in grado di tracciare un ideale itinerario culturale ed estetico: dagli immaginari volumi creati fissando fili nello spazio (all’inizio degli anni Novanta), a opere che intrappolano la luce generando «forme ovoidali dalla natura misteriosa» (come ricorda Anna Masoero) o a migliaia di spilli affondati nella tela in modo da costruire forme seducenti e ammaliatrici, sino alle sue opere al confine tra pittura e scultura in cui troviamo solchi, crepe, rughe. Linee che si incrociano, si sovrappongono, si accarezzano, creando un’armonia di forme cariche di rigorosa ed elegante sensualità. O ancora, le opere di Non avere timore (titolo di una recente mostra alla Triennale di Milano, sul tema dell’Annunciazione) in cui ritroviamo, in gioco di contrasti, l’iconografia della cristianità in relazione alle figure più evidenti della violenza: mitra, pistole, bombe a mano. Allegorie di guerra all’interno di un simbolo di pace.
«Attraverso il bianco, Pietrosanti attribuisce una dimensione all’evanescenza. Allestisce un teatro della sparizione», ricorda Vincenzo Trione, aggiungendo: «Animato da un’istintiva attitudine teoretica, nega ogni riconoscibilità. Iscrivendosi, anche se in maniera indipendente, all’interno del vasto e frastagliato arcipelago della “linea analitica” dell’arte del Novecento, egli si propone di destrutturare ogni codice rappresentativo».
Il decennale
La personale a dieci anni dal terremoto del 6 aprile 2009
Pur inseguendo la strada dell’astrazione Pietrosanti sembra trattenere la grande tradizione della Storia dell’arte avvolgendoci in una dimensione di silenziosa classicità. Una ricerca, la sua, che ci riporta a un complesso atlante del gesto, riconducibile sempre alla dimensione del dialogo, in cui la sua opera appare come la sofisticata sintesi dell’unione tra grande Storia e la singola energia di ogni esistenza.