ItaliaOggi, 12 marzo 2019
Parole per Cesare, in un libro l’ultima intervista a Cesare De Michelis di Stefano Lorenzetto
Un libro senza editore e fuori commercio. Pubblicato per ricordare un editore di libri. Felice paradosso quello di Parole per Cesare, elegante volume di 272 pagine appena stampato per ricordare la figura di Cesare De Michelis, l’editore della Marsilio morto il 10 agosto 2018, nove giorni prima di compiere 75 anni. L’opera era stata concepita inizialmente come un’intervista di Stefano Lorenzetto con De Michelis e avrebbe dovuto uscire lo scorso autunno con il titolo «In cerca d’autore».La scomparsa del protagonista ha costretto a rivedere i piani. Così il lungo dialogo sulle variegate esperienze di De Michelis (gli studi, la letteratura, la scoperta di nuovi scrittori, da Susanna Tamaro a Margaret Mazzantini, i saggi, l’insegnamento accademico, l’impegno politico, le collaborazioni giornalistiche, l’editoria libraria, l’editoria quotidiana) è diventato la parte finale del libro, preceduta da 96 testimonianze di coloro che hanno conosciuto il grande editore veneziano.
A partire da lunedì 11, il volume si potrà scaricare gratuitamente in Pdf all’indirizzo www.marsilioeditori/notizie e in formato e-book, sempre gratis, sulle piattaforme Amazon, Apple iBooks e BookRepublic.
Pubblichiamo l’introduzione dell’intervista di Stefano Lorenzetto.
Domanda. Che cosa accadde quando la Rizzoli Libri fu acquistata dalla Mondadori e quindi il 51% della Marsilio finì a Silvio Berlusconi?
Risposta. Non ebbi alcuna reazione. Sono atarassico. La Rizzoli Libri stava fallendo. Purtroppo nel 2015 la Rcs Mediagroup non era ancora nelle mani di Urbano Cairo, un editore capace che avrebbe rimesso in sesto anche la divisione libri, come ha dimostrato di saper fare con la divisione quotidiani, a cominciare dal Corriere della Sera. Quindi essere venduti si rivelò un’opportunità. Marina Berlusconi si dimostrò deferente e affabile. Non avrei avuto alcun problema a rimanere nella Mondadori se l’Autorità garante della concorrenza e del mercato non avesse obbligato la famiglia Berlusconi a disfarsi di due controllate della Rcs Libri, la Bompiani e la Marsilio.
D. Fosti contento che la Marsilio ritornasse in famiglia?
R. No. Infatti ci mettemmo alla ricerca di un altro partner e l’incontro con Feltrinelli, caldeggiato da mio figlio Luca, si rivelò la scelta giusta.
D. Perché avete venduto il 40% della Marsilio alla Feltrinelli?
R. Per lo stesso motivo per cui avevamo venduto alla Rizzoli. Vedi, essere solo, per un editore, è una sventura. La Marsilio è solo un pezzetto della filiera editoriale, non ha la forza di stare su un mercato in cui gli altri pezzi sono più robusti. Librerie, distribuzione, tipografie, cartiere, banche: sono tutti rapporti che fai fatica a sostenere se hai appena quattro soldi.
D. Obiezione: eri rimasto da solo, come editore, per quasi tutta la vita.
R. Erano altri tempi. Ho cercato di spiegarlo in tutte le lingue a chi sostiene che piccolo è bello: piccolo è brutto. I putei nasse picoli, dopo i deventa grandi; se i no’ deventa grandi, i xé malai. E così sono le aziende. C’è bisogno di una filiera che sappia valorizzare il prodotto, se vuoi che non si ammalino. Tutti siamo capaci d’individuare con una certa intelligenza i libri giusti.
Ma il vero problema è come muoversi una volta che li hai scelti. Se i libri sono brutti e non si vendono, noi e la Mondadori siamo uguali, non c’è differenza. Ma se la Marsilio fosse stata da sola quando scelse di pubblicare Larsson, posso garantirti che i risultati sarebbero stati molto più modesti. Mi ricordo che, quando uscimmo con «Il sesso in confessionale», eravamo perennemente senza copie nelle librerie, non riuscivamo a stoccare il necessario, vendevamo sempre i libri che avremmo avuto a disposizione dopodomani. Invece il grosso editore può permettersi il riassortimento tutti i giorni, conosce in tempo reale le copie che entrano e quelle che escono, rifornisce le librerie prima che un titolo vada esaurito, ogni mattina spedisce un pacco di volumi a ciascuno dei punti vendita. La Rizzoli ieri e la Feltrinelli oggi hanno il magazzino automatizzato, noi l’avevamo manuale: ogni singola copia doveva essere prelevata e inscatolata. Ricordo ancora con angoscia il giorno in cui crollò una scaffalatura nel nostro deposito di Firenze e rimasero sotto le macerie la responsabile delle spedizioni e un garzone. Credetti di morire. Per fortuna non morirono neppure loro: uscirono indenni da quel macello.
D. Che razza di mestiere è il tuo? Una volta hai definito l’editore «un operatore di logistica».
R. Spostare i libri da dove si producono a dove si leggono è tutt’altro che facile. Se tu pensi che in questo momento i volumi disponibili sul mercato in Italia sono circa 500 mila e che i lettori forti sono, a voler esagerare, 2 milioni, significa che hai 2 milioni di domande e solo 500 mila risposte. I tre quarti delle richieste restano inevase.
D. Perciò quali doti deve avere un bravo editore?
R. Intuito. Non eccessiva cultura, basta un’infarinatura generale. Sveltezza. Il suo lavoro non è molto diverso da quello del commerciante di scarpe. Ogni editore sforna un prodotto nuovo al giorno, o all’ora, o all’ora di pranzo e all’ora di cena. Una montagna di prodotti nuovi. Il sogno di tutti noi che facciamo questo mestiere è d’inventare il prodotto seriale, quotidiano, come il Corriere della Sera che tira 300 mila copie. A quel punto la mia rete commerciale dovrebbe solo sincerarsi che non ci sia un luogo dove mandiamo trenta copie e ne vendiamo solo tre e un luogo dove ne mandiamo solo tre e ventisette lettori restano senza. Devi sapere a chi ti rivolgi e per coprire quali bisogni. L’editore bravo non è colui che vende 10 milioni di copie anziché 10 mila, bensì quello che ha un database con le 10 mila persone che potrebbero essere interessate a un libro il giorno stesso in cui esce dalla tipografia».
D. Dovrei dedurne che il marchio della casa editrice conta poco?
R. Per i lettori che il logo sia Einaudi o Marsilio ha ben poca importanza. È molto più influente l’autore. L’identità della casa editrice diventa talvolta un valore aggiunto per il libro, ma, alla fin fine, non è poi così determinante. Alberto Arbasino resta Alberto Arbasino indipendentemente dalla casa editrice che lo pubblica. Con questo non voglio dire che l’Adelphi del mio amico Roberto Calasso non serva al lettore per indirizzarsi con più facilità su Arbasino».
D. Il mestiere dello scrittore è cambiato rispetto a cinquant’anni fa?
R. Un tempo lo scrittore vendeva poche copie, ma veniva risarcito dall’approvazione che riscuoteva nella società letteraria. Un libro procurava approvazione sociale e, di conseguenza, anche reddito, attraverso la conquista di una cattedra universitaria o di un contratto di collaborazione con un grande giornale. Oggi questi valori sono diventati marginali. La cultura umanistica e letteraria ha perso centralità. Pertanto il prestigio che si ottiene dalla pubblicazione di un libro è assai meno importante di un tempo. E poi è cambiata la funzione della scrittura e soprattutto è cambiata l’inventiva. La faccenda è piuttosto complessa. La letteratura era considerata un’area protetta, elevata, e chi vi si accostava aveva ben chiara una responsabilità: ciò che scriveva sarebbe stato di utilità morale per i destinatari. Erano pagine d’insegnamenti. Per quanto fosse spiritoso o facesse ridere, c’era sempre un secondo livello.
D. E quindi…
R. Pian piano, a un certo punto, si è creato un dualismo. Una parte della letteratura ha continuato a inseguire questi sogni di gloria, che diventavano sempre più improbabili, sempre meno facilmente raggiungibili, e un’altra parte ha dimostrato una grande capacità seduttiva nell’intrattenimento, che poi voleva dire il pornografico, il giallo, lo spionaggio, il noir. Tutta roba da cui non devi imparare proprio niente. Serve solo a divertirti, a distrarti, a mostrarti quegli aspetti del mondo e della vita che forse immaginavi ma che non avevi mai visto messi nero su bianco: uomini che frustano le donne, killer che cavano gli occhi con il cucchiaio, pedofili che insidiano minorenni. Lo scopo diversivo è diventato fondamentale.
D. Quando è che il confine ha cominciato a farsi labile?
R. Agli inizi del Novecento. Ma subito dopo la Seconda guerra mondiale la confusione è diventata totale: si scrivono bellissimi libri gialli, o dei libri gialli che sembrano bellissimi, e anche gli autori meno ambiziosi puntano alle 100 mila copie. Da entrambe le parti si ha la sensazione che il mondo stia facendo dell’altro, che si stia muovendo in una maniera che non capiamo bene. L’80% di quello che pubblicano certi miei blasonati colleghi che se la tirano tanto è letteratura di consumo proveniente da scrittoracci. Del resto non ci sono più in circolazione gli Elio Vittorini che davano alle stampe un solo libro perché avevano una verità da comunicare e lo riscrivevano quando si rendevano conto che nel frattempo era cambiato lo sfondo.