la Repubblica, 12 marzo 2019
La strategia europea di Salvini
Ci sono indizi, e non da oggi, secondo cui il capo della Lega Salvini sta sviluppando una sorta di “nazional-populismo in doppio petto": un’attitudine più accorta, meno estremista, volta a definire le basi della stagione politica destinata ad aprirsi dopo il 26 maggio, giorno delle elezioni europee. Parte di questa strategia sono i viaggi all’estero del sottosegretario Giorgetti, gli incontri con esponenti di alto livello del mondo economico e finanziario, lo sforzo di accreditare l’immagine di una Lega di governo realista e consapevole delle difficoltà. Per un verso il leader promette al partner a Cinque Stelle che il governo Conte durerà l’intera legislatura (un auspicio che Di Maio, ormai saldamente “governista”, condivide al mille per mille), per l’altro coltiva il profilo di una forza di destra conservatrice che vede se stessa come l’asse dei prossimi equilibri nazionali: dopo il voto di maggio o forse dopo eventuali elezioni politiche. In ogni caso Salvini gioca sullo scacchiere italiano tenendo conto del quadro europeo e si muove in Europa tenendo conto dello scenario domestico. Fino a poco tempo fa questa strategia era fin troppo chiara. La Lega puntava ad accrescere il suo ruolo grazie al progressivo spostamento a destra del Partito popolare europeo, la formazione di cui storicamente fa parte Forza Italia e non il partito di Salvini. Questi si proponeva in prospettiva come una specie di “corrente esterna” dei popolari, badando bene a non reiterare le antiche critiche ad Angela Merkel e all’Europa “tedesca”. Il nemico del nazionalismo leghista era ed è tuttora Macron, il presidente francese ormai leader degli europeisti ortodossi. Indebolire il rapporto Parigi-Berlino e inserirsi nel varco grazie allo slittamento verso destra del Ppe: ecco il progetto salviniano che non a caso faceva leva sull’intesa già in atto con l’ungherese Orbán, il cui partito aderisce al Ppe, nonché almeno in parte con i popolari austriaci. Il patto “sovranista” contrapposto all’ortodossia franco-tedesca. Sulla carta l’ipotesi resta ancora valida, tant’è che il voto del 26 maggio si annuncia come un confronto senza precedenti tra “europeisti” e appunto “sovranisti”. Negli ultimi mesi tuttavia qualcosa è cambiato. Il Ppe ha deciso di alzare un muro alla sua destra. Il bavarese Manfred Weber, un tempo il teorico dell’allargamento verso destra, è diventato il braccio armato di Berlino contro l’eresia di Orbán. Inutile dire che gli austriaci si sono presto adeguati. Sta di fatto che tra poco più di una settimana, il 20 marzo, si deciderà la sorte del leader ungherese, accusato non senza validi argomenti di aver calpestato i diritti umani in patria. Se Orbán verrà espulso dal Ppe, il significato simbolico dell’evento non potrà essere sottovalutato. Vorrà dire che il Ppe rinuncia all’apertura a destra e si accinge invece a cercare un’alleanza nel prossimo Parlamento rivolgendosi ai socialisti e ai Verdi. S’intende che un conto sono le intenzioni e un altro le scelte obbligate. Alla fine il Ppe dovrà fare ciò che vogliono gli elettori. Peraltro i sondaggi al momento sono controversi: alcuni indicano un’avanzata dei sovranisti; altri prevedono una tenuta dei vecchi equilibri fondati sulle forze tradizionali. In ogni caso per Salvini la chiusura a destra e addirittura l’espulsione di Orbán dal Ppe sarebbero cattive notizie. Un conto per la Lega è partecipare al rimescolamento del potere politico in Europa; tutt’altro conto è cercare riparo in un agglomerato di partiti nazionalisti senza grande futuro. Lo scontro è aperto a ogni conclusione.