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 2019  marzo 11 Lunedì calendario

Vita di Giovanni Minoli raccontata da lui stesso

«Quando sono andato via dalla Rai nel ‘97, e sono stato tanti mesi in Africa dove non conoscevo nessuno, ho scoperto che Giovanni mi stava più simpatico di Minoli».
Che le aveva fatto di male Minoli?
«Era la parte di me che viveva dovendo difendersi da tutto. Come quando in Kenya, in Tanzania, senti che la natura è più forte di te e pensi: è meglio che sto in campana. Per molti, ero sempre l’amico di Bettino Craxi o il genero del potente Ettore Bernabei, poi però ero quello che inventava i programmi e i canali, “Mixer”, “La Storia siamo noi”, “Quelli della notte” di Renzo Arbore, “Soldi, soldi” di Arrigo Levi, “Aboccaperta” di Gianfranco Funari, “Un Posto al sole”, Rai Storia, Rai Educational... Ma erano due pagine diverse dei giornali. Se non sei solido, produce una certa schizofrenia».
E a lei ha prodotto schizofrenia?
«Io mi sono riconciliato con le due parti di me. Ero arrivato in Africa da perdente e l’insuccesso fa bene. Se non sai fare la traversata del deserto, non sai andare in fondo a te stesso. Lì ho scoperto che Giovanni, figlio di Eugenio Minoli, giurista, inventore dell’arbitrato internazionale, e nipote di Ottavio Minoli, un Armani ante litteram che ha quasi dilapidato il patrimonio per finanziare Mazzini e Garibaldi, mi era simpatico e questo mi ha fatto diventare simpatico anche Minoli».
Quello sopra è solo un passaggio di una conversazione durata un pomeriggio. Giovanni, e si spera anche Minoli, sarà clemente se la sintesi si concentrerà soprattutto sugli aspetti più intimisti. Della vita professionale, d’altra parte, molto è stato già detto e scritto. Questo è un faccia a faccia con l’uomo che il faccia a faccia l’ha inventato, in Rai, nel 1980, riportandolo poi su La7 dal 2016.
Ha intervistato da Benjamin Netanyahu al Dalai Lama, da Enrico Berlinguer a Clint Eastwood, ma dice che «era un hobby, io sono stato soprattutto un dirigente tv, direttore di Raidue, Raitre, RaiEducational, Rai150, direttore generale di Stream».
Ora conduce «Green Leader» su National Geographic, intervista capi d’azienda impegnati anche a salvare l’ambiente e spiega: «Mi piace pensare lungo, a temi che riguardano anche figli e nipoti». È appena stato a Parigi, tre sabati di seguito, «per conoscere i gilet gialli dall’interno». Ha 73 anni e la curiosità di un ragazzo. È sposato dal 1974 con Matilde Bernabei, fondatrice, con il padre, della società di produzione Lux Vide, ha una figlia, Giulia. È nato a Torino, terzo di otto fratelli.
Che genitori ha avuto?
«Mamma è stata moglie, mai madre. Amava suo marito, noi figli eravamo il prodotto – o il fastidio collaterale necessario – dell’amore per lui. Diceva: vi cavo gli occhi a tutti se a papà viene un raffreddore».
Deduco che non si sia sentito amato dalla mamma.
«Da piccolo, io non c’ero. Esisteva solo mio fratello minore Paolo, morto a sei anni di tumore al cervello. Mi chiamavano Gioannin messo chil, mezzo chilo, perché praticamente non mangiavo per cercare di farmi notare».
Quanto soffriva Giovannino mezzo chilo?
«Tanto. Con mia madre ho sempre avuto un conflitto fortissimo. Lei era un capo, ma a me dava ordini, punizioni, però non mi comandava. Invece, mio padre mi faceva fare quello che voleva, perché mi convinceva. Mi ascoltava, puntava sulla mia capacità di capire le cose».
È morto in auto, quando lei aveva 24 anni.
«Avevo previsto l’incidente in un romanzo giovanile. La seguente scena è uguale: noi figli a colazione, mamma alza il telefono, ascolta, attacca; si gira e dice “papà è morto”. L’avevo scritto dieci anni prima».
Come se lo spiega?
«Resta l’interrogativo della mia vita. Ogni volta che ci penso sto male».

Che pensò quando sua madre disse: è morto?
«Ebbi un attimo di felicità per papà: parlavamo tanto noi due, era un credente e sapevo che la sua vera curiosità era scoprire cosa l’aspettava dopo. Quella è stata la reazione che mi ha tenuto in vita».
E quando è passato quell’attimo?
«I successivi anni sono stati di disperazione. Ho pensato: non sarò mai più capace di ridere. Era morto un amico, un padre, un amante, un maestro. Poi ho capito che, se uno non sa ridere almeno cinque minuti al giorno, sta sbagliando vita».
Le manca ancora?
«No, perché gli parlo sempre. È una presenza viva nella mia vita. Gli parlo come sto parlando ora con lei. Lui risponde, perché so cosa pensa».
Lei non ha paura della morte?
«Nessuna. Ho avuto un infarto a giugno. Mi hanno operato per nove ore a cuore aperto e impiantato tre bypass. Il cardiochirurgo mi ha detto: “Io qui ho visto morire papi, presidenti... Tutti disperati. Invece tu, sereno e tranquillo”».
Era la fede a darle forza?
«Spero la mia curiosità dell’aldilà, unita al mio essere aspirante cristiano».
Perché «aspirante cristiano»?
«Perché la carne è debole e siamo tutti peccatori e io non so qual è il criterio finale, cosa il padreterno ti deve leggere nel cuore per dire: tu sì tu no».
Cosa la preoccupa di quel momento?
«Scoprire che ho fatto del male a qualcuno, perché può capitare e non lo sai o, peggio, te ne sei accorto ma sei stato superficiale».
Aver studiato dai Gesuiti cosa ha dato alla sua formazione?
«Il senso del primato della cultura e un metodo di giudizio delle mie azioni. Gli esercizi di Sant’Ignazio sono un viaggio profondissimo attraverso il silenzio dentro te stesso. Impari a giudicarti severamente ma anche con tenerezza. Setacci le esperienze, il bene e il male. La tua responsabilità parte da quel momento in poi».
Di quali difetti si è emendato con gli esercizi di Sant’Ignazio?
«Ho imparato ad avere pazienza. Tutto arriva a chi sa aspettare. E di Sant’Ignazio che dice ai Gesuiti “andate e incendiate il mondo”, mi piace l’idea che non bisogna fermarsi mai. Nel rapporto con Matilde, questa visione ha reso stima e fiducia sempre più forti. Se stimi, ti affidi, se ti affidi, apri il cuore. E se apri il cuore, il modo di comunicare cambia».
Come resiste un amore per 45 anni?
«Il matrimonio è come il Giro d’Italia. Il problema è arrivare primi a Milano, non è vincere tutte le tappe. Capitano tappe che sono vere storie a sé, però gli amori si sommano, non si elidono».
E come si riparte dopo una tappa critica?
«Con la sincerità si superano e si accettano anche le lontananze e i silenzi, se si conserva la stima».
Che cosa ha capito dei gilet gialli a Parigi?
«Ho visto via via cambiare le facce. Prima c’erano gli arrabbiati, poi ho visto arrivare i violenti. Quelli sbagliati che Luigi Di Maio è andato a trovare con distrazione, poca preparazione. Però noi i gilet gialli non li abbiamo perché li abbiamo già mandati al governo. I 5 Stelle hanno convogliato una protesta che poteva essere pericolosa, ma ora devono capire che la politica è compromesso. Stanno applicando la tecnica del cedere con fermezza. In un governo che definirei: con una malferma salute di ferro».

Lei, da Dg di Stream, partecipò al provino per il Grande Fratello di Rocco Casalino. In cosa lo riconosce ancora?
«Il Gf concentra le problematiche della vita e tu tradisci, ti allei, dici bugie, tutto in due mesi. Casalino, già allora, era abile e veloce nella gestione delle questioni interne. Ma ora la sua tecnica di comunicazione è perfetta per stare all’opposizione e deleteria in un governo di coalizione».
Il marchio dei suoi faccia a faccia sono le domande a raffica, anche aggressive. Qual è l’obiettivo finale?
«Farsi un’idea della persona, rispetto al “gli credo o non gli credo”».
A chi credeva e, dopo averlo intervistato, non ha creduto più?
«Ted Kennedy. Non l’ho neanche intervistato, infatti. Avevamo combinato, vado a Washington e lì mi dice: io di Chappaquiddick non parlo. Me ne sono andato. Voleva candidarsi alla Casa Bianca e pretendeva il silenzio sull’incidente, con lui alla guida, in cui morì una ragazza».
Un dietro le quinte mai confessato?
«Avevo chiesto a Gianni Agnelli perché amava più Michel Platini che Zbigniew Boniek. E lui: perché è troppo polacco, solo i polacchi credevano di vincere andando a cavallo contro i carrarmati russi. E si fa una risatina da solo. Dopo, gli domando: perché rideva? Mi risponde: “Perché stamattina ho chiesto al Segretario di Stato Casaroli cosa vuol dire quando dice che questo papa è troppo polacco”... Agnelli aveva detto di Boniek quello che Casaroli pensava di Wojtyla».

Le viene facile fare le domande scomode?
«Sì. Quando Silvio Berlusconi, nel 1994, mi disse che credeva nei valori cristiani, mi prendo un tempo comico di silenzio e domando: quali? Mi voleva ammazzare. È l’adrenalina del match. Ma non ho mai voluto uccidere. Maurizio Costanzo aveva negato di essere iscritto alla P2, io gli lessi il numero di tessera. Diede una risposta vaga e non ho insistito».

Qual è la sua paura più grande?
«Incontrare un leone sulla spiaggia di Malindi. O forse l’invidia, perché non l’ho mai provata e non la so riconoscere».
Come vorrebbe morire?
«Da vivo».