La Stampa, 11 marzo 2019
Vietare il rientro ai foreign fighter
«Voglio ritornare in Italia dalla mia famiglia e i miei amici e che loro mi accettino e aiutino a vivere una nuova vita. Voglio uscire da questo film, sono stanco». Sono queste le parole rilasciate da Moncef al Mkhayar alla Reuters mentre è detenuto dalle Forze Siriane Democratiche, la milizia supportata da Washington che sta combattendo gli ultimi rimasugli del fu Califfato. Mkhayar è infatti uno dei circa 130 foreign fighter che negli anni passati aveva lasciato il nostro Paese per unirsi allo Stato Islamico. Il suo caso è stato spesso visto come emblematico delle dinamiche di radicalizzazione nel nostro Paese: arrivato in Italia a 14 anni, Mkhayar era passato di comunità in casa famiglia a causa del carattere difficile e delle ripetute azioni violente e criminali. Fu proprio in carcere, dove era stato detenuto per droga, che pare fosse iniziato il suo percorso di radicalizzazione, per poi continuare su internet, due dinamiche classiche. Nel gennaio 2015, appena diciottenne era poi partito per la Siria insieme ad un amico conosciuto in comunità, Tarik Aboulala, che morì sul campo di battaglia poco dopo.
Il dilemma etico
Oggi Mkhayar, crollato il Califfato che con tanto entusiasmo aveva raggiunto e per il quale aveva cercato di reclutare altri amici in Italia, arrivando a minacciarli di morte dalla Siria via social, vuole tornare in Italia. È una dinamica che negli ultimi mesi si è vista in altri Paesi europei, dove i numeri dei foreign fighter sono ben più alti che da noi. Particolarmente eclatante è stato in Inghilterra il caso di Shamina Begun, partita quindicenne da Londra per unirsi al Califfato e ora detenuta in Siria. Intervistata, la Begun, dimostrando un solo parziale pentimento e senza condannare l’Isis, ha comunque invocato il proprio diritto a tornare nel Regno Unito. Londra ha reagito revocandole la cittadinanza inglese e rendendola, in sostanza, apolide, cosa che ha provocato non poche polemiche.
È questo il dilemma che sta animando il dibattito in molti Paesi europei: cosa fare dei soggetti, spesso cittadini nati e cresciuti nel Paese, che hanno combattuto con lo Stato Islamico e adesso, caduto il Califfato e detenuti, reclamano il diritto di tornare in patria? Vanno tutelati da angherie e processi sommari ai quali varie forze governative e non in Siria e Iraq li sottoporranno, come uno Stato occidentale farebbe normalmente con i propri cittadini all’estero? Oppure sono soggetti, che volontariamente si sono uniti a uno dei gruppi più violenti e barbarici della storia contemporanea e che, se rimpatriati, potrebbero evitare il carcere o scontare solo qualche anno per poi diventare delle vere e proprie mine vaganti pronte a colpire nei nostri Paesi? Vanno privilegiati i loro diritti individuali o quelli collettivi di sicurezza?
Sono queste domande alle quali è difficile rispondere e ogni Paese occidentale le sta affrontando il maniera diversa. La volontà di agire eticamente, rimpatriando soggetti che, al di là delle atrocità che hanno commesso, sono comunque cittadini, cozza con la dura realtà che vede delle oggettive problematicità ad arrestare e condannare molti dei foreign fighter di ritorno a causa delle difficoltà a trovare prove contro di loro da poter portare in tribunale: un conto è sapere a livello di intelligence che un soggetto era in Siria a combattere, altro è poterlo provare con evidenze che passino il vaglio procedurale di un tribunale. Si arriva così a dinamiche altamente preoccupanti come quella inglese, dove solo una piccola percentuale dei combattenti ritornati sono stati arrestati, mentre la maggioranza è libera e assorbe le risorse dell’antiterrorismo inglese, che può solo monitorarli.
Fortunatamente le dinamiche italiane sono diverse. I foreign fighter ritornati sono poco più di una dozzina, e il sistema giuridico italiano dispone di strumenti adeguati. Mkhayar, nonostante quanto riportato dalla Reuters, non è un cittadino italiano e quindi non sussiste un vero e proprio diritto al ritorno da noi, il problema si pone solo per quell’esiguo numero di soggetti con passaporto italiano che, se tornassero, verrebbero arrestati (è quanto successo l’anno scorso con Lara Bombonati, la ragazza di Tortona che, assieme al marito siciliano poi deceduto, si era recata in Siria).
Il prezzo delle scelte
Oltre a non averne diritto giuridicamente, Mkhayar ha perso ogni diritto al ritorno in Italia anche dal punto di vista morale, vista la turpità delle sue azioni non solo una volta giunto in Siria ma ancor prima quando viveva in Italia. Se ci si unisce a una setta fanatica che ha sterminato intere popolazioni, schiavizzato migliaia di donne e compiuto attentati in tutto il mondo non si può certo dire di essere «stanco» e di «voler uscire da questo film» al primo giornalista, una volta arrestati, e pensare di farla franca. Come ogni persona, deve scontare il dovuto per le sue azioni, e il primo prezzo da pagare è l’impossibilità di tornare in Italia. Le sue dichiarazioni sono solo lacrime di coccodrillo che non inteneriscono.