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 2019  marzo 10 Domenica calendario

Io, Marina Abramovic, abbatto confini

A lei è riuscito quello che – nel comparto arte contemporanea – è riuscito a pochissimi. Ovvero migrare dal ruolo di autentica esponente di un’avanguardia, peraltro piuttosto estrema, al rango di celebrità planetaria: osannata, blandita, criticata, fermata per strada ai quattro angoli del pianeta, copertinata, perfino aggredita, l’ultima volta da un sedicente artista lo scorso settembre a Firenze durante The Cleaner, retrospettiva sul suo lavoro che fino a gennaio ha calamitato a Palazzo Strozzi la cifra record di 180 mila visitatori: «Pop io? Non lo so. Ma non mi sento una star. Come dice Woody Allen, io oggi sono una star. Ma cosa sarò domani? Un buco nero?».
Marina Abramovic – classe 1946, serba di nascita, naturalizzata statunitense – appare consapevole del suo ruolo ma non è affatto priva di autoironia, caratteristica con cui condisce quasi ogni risposta durante una lunga conversazione telefonica Roma-New York, città dove vive da anni: «Questa sì che è una parodia feroce, deve vederla... Ho riso come una pazza e non ci vanno certo leggeri con me. Non come nella scena della Grande bellezza di Paolo Sorrentino, quella al confronto era una cosa timida». Il riferimento al film riguarda la scena in cui la performer Talia conclude la sua corsa sfrenata con una testata contro un muro, sullo sfondo di un paesaggio archeologico. Ora invece a farla ridere («completamente un altro livello») è un episodio, in uscita in queste ore negli Stati Uniti, di Documentary Now!, serie tv di genere falso documentario in cui è Cate Blanchett a vestire i panni di colei che è stata definita (si è autodefinita), di volta in volta, matriarca, madre o nonna della Body Art: «Ecco, lo sapevo (ride). Ormai non sfuggo più. Posso fare un appello? Non mi si faccia più questa domanda. È una definizione che mi sono data tanti anni fa. E da allora mi è rimasta incollata, proprio a me che non amo restare incollata a nulla, figurarsi a una definizione».
Si dica allora che dai primi anni Settanta a oggi Marina è la donna che ha sfidato il proprio corpo trasformandolo in mezzo di espressione artistica, soggetto-oggetto di azioni estreme, sacrificali, a volte poetiche, non di rado violente, comunque, a loro modo, uniche. Quella volta che le puntarono un’arma carica minacciando di premere il grilletto; quella volta che Marina attraversò a piedi migliaia di chilometri lungo la Grande Muraglia solo per dire addio a un amore (il lungo sodalizio con l’artista tedesco Ulay, che le venne incontro dall’altro capo della fortificazione cinese); quella volta che rischiò, letteralmente, di morire per asfissia; quella volta che con un rasoio si incise una stella a cinque punte sul ventre, quella volta in cui si lasciò «accarezzare» da cinque pitoni lunghi anche quattro metri a digiuno da due settimane... Sono alcune tra le prove più estreme cui Abramovic si è sottoposta lungo una carriera che ora la vede celebrata in mezzo mondo. Proprio in queste ore è in partenza per la Polonia: «La prima di sette tappe di una mia retrospettiva che toccherà altrettante città, andrà a Bonn e si concluderà, a settembre, a Belgrado. Per me un luogo importante, è la prima volta che mi hanno invitata, non sono mai stata amata nel mio Paese, nella ex Jugoslavia, e torno ora per questa mostra».
A Belgrado Marina è nata. Dalla Belgrado di Tito, Marina fuggì. E alla sua città e alla guerra è dedicata quella che è forse la sua performance più nota, Balkan Baroque, con cui nel 1997 vinse il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia. Marina rimase seduta su tonnellate di femori di animale, pulendo quelle ossa putride in maniera ossessiva per giorni, senza sosta, come atto di denuncia contro la guerra. Un gesto utopico, quasi a voler lavare via le atrocità di quel conflitto nella sua terra natia: «Se devo pensare oggi a quell’intervento – dice – la prima cosa che mi torna in mente è la puzza. Un tanfo tremendo».
È immaginabile, secondo lei, oggi, l’azione di un artista capace di altrettanta forza contro massacri analoghi a quelli nei Balcani, ad esempio quelli in corso in Siria o nello Yemen? «Quella performance la pensai perché era la mia storia, io ne ero parte. C’erano stati cosi tanti morti, così tanto sangue. Oggi in qualche modo sembriamo abituati, avvezzi a tutto. Alle immagini di sangue, di ammazzamenti... Siamo sopraffatti dalle informazioni. La violenza, la morte, in qualche modo siamo solo spettatori e non reagiamo quasi più».
Quindi aveva ragione Susan Sontag nel libro Regarding the Pain of Others («Guardando il dolore degli altri» il titolo italiano): restiamo impassibili di fronte alle sofferenze altrui? «Sì. Susan era anche un’amica – ricorda Marina – e aveva ragione. Guardiamo il dolore e restiamo indifferenti, come se il dolore e la violenza non fossero più reali. Siamo come follower. Oggi la sfida per contribuire a mutamenti radicali è cominciare a cambiare sé stessi per poi iniziare a cambiare il mondo. Questo è il mio impegno, ed è anche il ragionamento che porto avanti con la mia Academy, il metodo Abramovic (il Mai, Marina Abramovic Institute, sulle rive dell’Hudson, a nord di New York, ndr) che consiste essenzialmente nell’iniziare a cambiare in prima persona, e comunicarlo al pubblico».
Nel suo Paese non è più tornata. Che rapporto ha invece Marina Abramovic con l’Italia, dove ha anche vissuto (a Stromboli e a Roma, città del suo ex marito Paolo Canevari)? «Conta moltissimo, Milano soprattutto. L’Italia rappresenta il vero inizio della mia carriera artistica. Per me, era il Paese di confine. E venirci, dalla ex Jugoslavia, significava varcarlo... E poi il Paese negli anni Sessanta era talmente vibrante, effervescente: l’Arte Povera, Piero Manzoni, Kounellis, Luciano Fabro, Gino De Dominicis... Quell’Italia aveva un Dna emotivo, passionale, pieno di vita, potevi sentirlo nella pancia senza nemmeno il bisogno di esprimerlo a parole. Soprattutto tra i giovani c’era una forza, una carica, all’epoca assente nel mio Paese, dove fin dall’inizio sono stata molto criticata. Mai nessuna recensione positiva, dicevano che avevo venduto l’anima all’Occidente. In Italia è stato diverso fin dall’inizio, ricordo la Biennale del 1976, l’entusiasmo con cui parlò di me Gillo Dorfles, scomparso il 2 marzo di appena un anno fa, sul “Corriere”. In 49 anni di attività non ho mai mostrato il mio lavoro nel mio Paese. Ora vediamo un po’ cosa succederà a settembre a Belgrado».

Prima di Belgrado, però, l’appuntamento imminente è a Roma, dove domani, lunedì 11 marzo, alle 19, alla Galleria nazionale d’arte moderna le sarà consegnato il «Premio Arte: sostantivo femminile», riconoscimento creato dall’Associazione Amici dell’arte moderna a Valle Giulia. Da undici edizioni questo premio vuole essere un tributo per quante si battono in un mondo dove da sempre la figura maschile è vista come preponderante. «Credo mi premino come donna che ha segnato in qualche modo la storia dell’arte, non so bene... A me comunque i premi piacciono, moltissimo – gongola – dico davvero, in particolare adoro le medaglie. Sa, sono cresciuta in una casa con genitori partigiani ed eroi nazionali, era piena di medaglie, le amo. Roma invece mi fa uno strano effetto, è una città cui è legata una parte della mia vita personale, ma dal punto di vista professionale... non so, a Roma è sempre un po’ come se si camminasse sulla Storia. C’è troppa arte. Non c’è quasi mai un vuoto. E un artista, almeno per come lo intendo io, ha bisogno di vuoti per creare». Bisogno di vuoti, e di pubblico: i 180 mila di Firenze, i 750 mila, così riportano le cronache, che nel 2010 assistettero alla sua performance al Moma, quando sedersi in silenzio a un tavolo di fronte ad Abramovic fu l’evento (anche cool) della scena newyorchese di allora, cui non si sottrassero star del calibro di Björk, Isabella Rossellini, Lou Reed: «La cosa veramente importante, per me, è il momento del rapporto con il pubblico. Più ce n’è, meglio è. Più intenso e numeroso è il pubblico, più mi sento responsabile, soprattutto con i giovani. È stato sempre così, e lo è soprattutto adesso che, essendo conosciuta, ho più voce di prima, maggior peso, rilievo. Ma per me il pubblico è comunità. Io non mostro il mio lavoro, le mie performance, nel jet set. Mi confronto con le persone reali, non conta il sesso, l’etnia, la religione, la preparazione. Alle mie performance sono tutti benvenuti. Mi interessa la reazione emotiva e il passaparola che si innesca tra chi assiste ai miei lavori e poi lo racconta agli amici. Una delle esperienze più belle a questo proposito fu proprio al Moma per The Artist is Present, quando 86 custodi del museo andavano a casa, si cambiavano la divisa e tornavano sul luogo di lavoro – dove uno di solito quando stacca, stacca – solo per partecipare da spettatori al mio intervento. Ecco, esattamente quel tipo di cose che rendono l’arte molto più che arte».
A proposito di arte, quali sono i progetti di Marina Abramovic per il futuro? «Una personale alla Royal Academy of Arts di Londra, e intanto continuo a lavorare a un’altra cosa molto importante, un progetto cui mi sto dedicando da tempo, la co-direzione di un’opera, Seven Deaths, dedicata a Maria Callas». Marina alias Maria la divina, da sempre idolo e punto di riferimento per la performer, entrambe creature dal temperamento eccezionale, accomunate (anche) da amori infelici.
La femminilità è un tema ricorrente nel pensiero-azione di Abramovic: «Nulla è scontato. Prenda Palazzo Strozzi – dice Marina riferendosi alla recente mostra fiorentina – un’artista donna non c’era mai stata, ho fatto una piccola rivoluzione. E spero davvero di poter fare da apripista per tante altre nel futuro...» (auspicio accolto, per settembre la Fondazione ha infatti annunciato la retrospettiva Natalia Goncharova. Una donna e l’Avanguardia tra Gauguin, Matisse e Picasso, dedicata a una figura centrale negli ismi del XX secolo). E donne sono anche due artiste – su tre, il terzo è l’italiano Nico Vascellari – tra i nomi indicati da Abramovic fra i giovani che ammira e segue: «La giapponese Chiharu Shiota, che da quando ha partecipato al padiglione Giapponese della Biennale di quattro anni fa sta crescendo meravigliosamente, e la croata Ana Prvacki».

Come si trova, Marina, a vivere nell’America della presidenza Trump? «Ultimamente non sto spesso a New York, non solo perché giro il mondo, ma anche perché l’atmosfera è diversa. Da quando è alla guida del Paese molti se ne sono andati, e altri se ne stanno andando. C’è un’energia diversa, si respira un’altra aria. Non so cosa potrebbe succedere se fosse rieletto. Magari anche io me ne tornerò a Stromboli. Quando arrivai negli Stati Uniti, la mia amica Susan Sontag sosteneva che vivendo a New York era come vivere dovunque. Allora era vero, oggi, almeno per me, non è più cosi. Per me la famiglia, casa, è l’Europa. Un luogo dove ancora la diversità è un valore». Ne è sicura? Anche in Europa si dibatte, di migrazioni ad esempio... «Lo so. E il mio pensiero su questi temi l’ho espresso tutto nella bandiera che ho creato per la Barcolana di Trieste». Un manifesto per la storica regata a vela, che per i suoi 50 anni di vita, l’estate scorsa, ha affidato ad Abramovic l’immagine ufficiale. Il messaggio, We are all in the same boat («Siamo tutti nella stessa barca»), ha generato polemiche e censure: «E pensare – ride Marina – che quel manifesto lo avevo immaginato settimane prima che scoppiassero le polemiche sui migranti. Io mi riferivo a una condizione universale dell’uomo, ma sono stata attaccata come se avessi fatto un manifesto politico».
E di confini, di muri, cosa pensa Abramovic, nata serba, naturalizzata americana, vissuta in Italia, ad Amsterdam e cittadina del mondo? «Io i confini, da sempre, li attraverso. Anche i confini delle definizioni classiche della storia dell’arte, non solo quelli geografici. Per questo non mi ritrovo nelle definizioni. Per questo nella mia vita ho sempre puntato a rompere la dialettica tra classicità e avanguardia. Una risposta esaustiva, comunque, sta tutta nella mia autobiografia, tradotta in ventidue lingue e intitolata non a caso Walk Through Walls. A Memoir (in italiano Attraversare i muri. Un’autobiografia, edito da Bompiani nel 2016, per i 70 anni dell’artista) . Io, da sempre, se vedo un muro, ogni tipo di muro, ci passo attraverso e provo ad andare oltre».
Oltre la paura, oltre i limiti del corpo, ancora oggi? «Io oggi sono quello che avrei voluto essere. E non avrei mai pensato che ci sarei arrivata. Però solo io so quanto mi è costato, di fatica, e quanto ancora mi costa. Quanto impegno ci metto ogni giorno, quanto sacrificio. La gente pensa io faccia una vita pop, di serate mondane e cose simili. Non è così. Faccio ora quello che facevo prima e che ho sempre fatto. Comincio a lavorare prestissimo, e lavoro finché non crollo, tutti i giorni. Credo che morirò lavorando».