La Lettura, 10 marzo 2019
Mussolini e Rodolfo Valentino
Colpisce l’immagine di Douglas Fairbanks e Mary Pickford, celebrata coppia di attori hollywoodiani, che nel 1927 levano il braccio nel saluto romano sulla spiaggia con amici e parenti. È noto che il fascismo godeva di buona stampa, negli Stati Uniti di allora, ma finora era sfuggito il nesso tra la popolarità di Mussolini e i meccanismi del divismo cinematografico americano, abilmente manovrati da comunicatori (oggi forse diremmo spin doctor) di prim’ordine. Un tema su cui indaga Giorgio Bertellini nel libro (meritevole di trovare presto un editore italiano) The Divo and the Duce (University of California Press), tracciando un suggestivo parallelo tra il dittatore e il suo connazionale Rodolfo Valentino.
Entrambi, spiega l’autore a «la Lettura», sono «celebrità mediatiche, cioè individui il cui comportamento privato e pubblico trascende la normalità. Da Mussolini e Valentino ci si aspettavano opinioni originali, meglio se controverse e controcorrente. Invece di presumere che la loro popolarità derivasse principalmente da un rapporto “spontaneo” e non mediato con il pubblico, mi sono concentrato sul ruolo promozionale di mediatori, spesso sconosciuti: pubblicisti, giornalisti, avvocati e responsabili di pubbliche relazioni. Capire la loro importanza non significa svuotare di significato l’importanza di Valentino e Mussolini, le somiglianze tra le loro dichiarazioni pubbliche (spesso scritte da altri) o il rilievo della loro fama per Hollywood, la cultura politica americana o le comunità italo-americane. Significa apprezzare il fatto che questi mediatori spesso agivano a nome di interessi commerciali e politici statunitensi».
C’era una certa consonanza tra Mussolini e Valentino in fatto di svalutazione della democrazia. E sembra strano che fossero così popolari in un Paese che aveva appena dato il voto alle donne. «La loro sintonia – precisa Bertellini – non era però legata all’ideologia fascista, per la quale l’attore mostrò spesso indifferenza, ma al culto della leadership maschile, romantica e plebiscitaria a un tempo. Trattandosi di celebrità, Valentino e Mussolini suscitavano reazioni a livello di immaginario. L’America del primo dopoguerra si svegliò stanca degli idealismi di Wilson. Gli emendamenti costituzionali del 1919 e del 1920, per il diritto di voto alle donne e il proibizionismo, avevano minacciato l’idea di leadership maschile, ruvida ed efficace, che la propaganda di guerra aveva celebrato. E non dobbiamo pensare alle donne americane come a un blocco unico. Quelle che avevano lottato per il voto non erano necessariamente una maggioranza. Vi erano anche le flappers, tardo adolescenti che, avvantaggiandosi di diritti per i quali non avevano combattuto, amavano far mostra di libertà nuove, come coltivare amicizie maschili senza l’urgenza di accasarsi. Alcune delle loro sorelle maggiori avevano sognato di vivere le trame di romanzi rosa ambientati in deserti orientaleggianti, in cui donne bianche venivano sedotte, talvolta con la forza, da sceicchi impenitenti e romantici. Non è un caso che Valentino sia divenuto una star con il film Lo sceicco (1921). Negli stessi mesi, in varie interviste, l’attore difende la forma costituzionale “forte” della monarchia contro quella repubblicana, per lui debole: questo un anno prima della marcia su Roma».
E il Duce? «La promozione mediatica di Mussolini insiste in maniera ancora più esplicita sulla sua personalità autocratica, efficiente e allergica alle inerzie democratiche. Molte donne lo intervistano: da un lato ne condannano lo sciovinismo maschilista, dall’altro finiscono per perdonarne gli eccessi in virtù della sua italianità e di un fascino autoritario spesso descritto in termini hollywoodiani».
Inoltre la popolarità del Divo e del Duce si collega all’accettazione della multietnicità negli Stati Uniti. «Questo però – precisa Bertellini – vale solo per gli immigrati europei, non per gli individui di colore. Dalla metà degli anni Dieci del XX secolo il concetto di melting pot, cioè di assimilazione come cancellazione delle differenze nazionali, entra in crisi. Intellettuali come Randolph Bourne difendono le differenze nazionali come risorsa dell’americanismo, non più minaccia. Da sempre il cinema aveva sfruttato la diversità degli immigrati bianchi europei per fini drammaturgici. Così il “pittoresco” da codice pittorico migra e viene usato dal primo cinema Usa per “addomesticare” la diversità di quegli immigrati, rendendoli oggetto di attrazione visiva e simpatia emotiva. Negli anni Venti, la figura italiana più spendibile non è più l’immigrato di Little Italy (tornerà ad esserlo come gangster), diventa più sofisticata: ha ancora un temperamento passionale, ma gli viene riconosciuto il fascino “senza tempo” del latin lover e del leader politico. La sua sensualità diretta si accompagna alle nuove libertà di esteriorizzazione del desiderio riconosciute al pubblico femminile; allo stesso modo l’idea latina di potere autoritario si abbina alle delusioni per le inerzie dei leader democratici».
Però Valentino fu accusato di proporre un modello maschile effeminato. «Nel luglio del 1926, il “Chicago Tribune” pubblica un editoriale anonimo in cui paragona l’attore italiano a un “piumino da cipria”. Alcuni storici del cinema l’hanno considerato un attacco omofobo contro la sua diversità culturale, oppure come un indicatore, ironico, di una cultura queer che Valentino, qualsiasi fossero le sue inclinazioni personali, aveva portato alla ribalta. Nella mia ricerca ho scoperto una spiegazione storica più fondata».
Di che si tratta? «Nel luglio 1926, Valentino aveva da poco completato le riprese del sequel Il figlio dello sceicco, dopo che alcuni insuccessi e molti scontri con i produttori lo avevano indebolito come attrattiva al botteghino. La United Artists (Ua) gli aveva concesso un’altra possibilità. Il problema era pubblicizzare il film. Tra le carte del responsabile della promozione della Ua, Victor Mansfield Shapiro, ho trovato un’intervista, concessa negli anni Cinquanta, in cui racconta come avesse escogitato la trovata pubblicitaria che portò Valentino sulle prime pagine dei giornali, costringendo i distributori ad accettare le richieste esorbitanti della United Artists. Valentino era stato al gioco. Shapiro era talmente orgoglioso della trovata, che quando, poche settimane dopo, Valentino venne ricoverato in ospedale per una vera malattia (che poi lo portò alla morte prematura), l’ossessione della stampa americana per le condizioni di salute della star gli fecero venire il dubbio che un altro promotore avesse avuto un’idea ancora più efficace della sua».
Non è un paradosso l’attrazione per le personalità autoritarie nelle democrazie di massa? «Il giornalista e politologo Walter Lippmann nel libro Liberty and the News del 1920 – ricorda Bertellini – avverte che l’espansione dei circuiti dell’informazione in mano a poteri privati crea forme di consenso plebiscitario che o minacciano il governo o lo rendono invulnerabile. In Public Opinion (1922) lo stesso Lippmann descrive l’illusione democratica del “cittadino onnipotente” che, invece di votare sulla base di criteri razionali, insegue immagini mentali costruite da altri. Non a caso fa l’esempio del film razzista di D. W. Griffith, Nascita di una nazione (1915), che suscita simpatia per il Ku Klux Klan anche in coloro che non ne hanno mai condiviso le idee. In quegli anni i mass media riescono a tradurre esperienze e immaginari attraverso la “tecnologia visiva” più potente, il divismo. Oggi la cultura partecipativa legata al mondo di tecnologie sempre più interconnesse impone che non si parli più solo di personalizzazione della politica o politicizzazione delle celebrità, o solo di integrazione verticale dei poteri mediatici, ma anche di nostre complicità orizzontali da utenti. Per dirla con il laboratorio letterario francese OuLiPo, il romanzo perfetto oggi andrebbe composto scritturando come omicida anche il lettore».