La Lettura, 10 marzo 2019
Le crisi economiche fanno bene alla salute
In Italia si sente dire di tutto, compreso che ci sarà un boom economico (o forse no), altri invece prevedono che andremo incontro a un lungo periodo di recessione. La gente è confusa e non sa più a chi credere. E se ci chiedessimo invece se per la nostra salute la recessione sia un bene o un male? La risposta sembrerebbe ovvia ma non è così.
All’inizio del secolo scorso – nel 1922 a essere precisi – studiosi della Columbia University a New York notano qualcosa che sulle prime li lascia senza parole, fanno e rifanno i calcoli per essere sicuri ma non c’è verso, è proprio così: nei periodi di crisi economica dei 50 anni precedenti, le cose non andavano poi così male per la salute dei cittadini, tutt’altro. Un esempio solo. La mortalità – almeno negli Stati Uniti – in tempi di crisi economica non solo non aumentava ma addirittura diminuiva se confrontata con quella dei periodi di prosperità. La cosa che colpisce di più di questo studio è che la riduzione della mortalità non si riferiva solo agli anziani o in generale agli adulti, ma persino ai bambini (anche loro nei periodi di crisi morivano di meno). «Sarà un caso» pensavano, ma quando si sono concentrati sulla crisi del 1929 i ricercatori hanno visto esattamente la stessa cosa: la mortalità globale è stata la più bassa di sempre, almeno stando ai dati del Servizio di Salute Pubblica degli Stati Uniti.
E nelle altre parti del mondo? Non ci crederete ma sembra sia proprio così dappertutto, in passato ma anche ai giorni nostri. Durante la grande recessione dell’Europa degli anni 2000 la mortalità diminuiva rispetto agli anni precedenti, persino nei Paesi – come la Spagna – dove la disoccupazione era arrivata a livelli preoccupanti. Insomma i dati di tutta la letteratura scientifica internazionale sono molto convincenti sul forte legame fra periodi di crisi economica e riduzione della mortalità al punto da poter essere paragonati a quello che lega il fumo di sigaretta al tumore del polmone. «Ma allora perché ci affanniamo a cercare la ripresa economica se in recessione si sta meglio?», si chiede Lynne Peeples su «Nature» di qualche settimana fa. Il problema è che le difficoltà economiche hanno anche conseguenze negative (sulla salute mentale, per esempio, e non solo; ci sono circostanze in cui aumentano anche certe malattie croniche e persino i casi di suicidio).
«Così però non si capisce più niente», direte voi. Com’è che da una parte la recessione sembra far bene e dall’altra ci si ammala di più? Il problema è che mentre i più si avvantaggiano dei periodi difficili perché costretti ad adottare stili di vita più salutari, i pochi che stavano già male ne soffrono al punto di ammalarsi di malattie anche molto gravi e questo succede soprattutto per carenza di cibo, condizioni igieniche precarie e difficoltà ad avere accesso a farmaci e ospedali. Questa perlomeno è la conclusione di Christopher Ruhm, un economista di Charlottesville che ha studiato questo fenomeno come pochi altri al mondo: «Nei periodi di difficoltà economica i più stanno meglio, mentre per una minoranza di cittadini le condizioni di salute peggiorano drammaticamente». Qualche esempio? Nei momenti difficili diminuiscono gli incidenti sul lavoro anche perché di solito quelli che conservano il lavoro sono i più esperti (che fra l’altro nei periodi di crisi hanno anche meno da fare e possono permettersi di porre maggiore attenzione alle attività più rischiose). Non solo, ma la gente guida di meno e questo riduce il numero di incidenti stradali e migliora anche la qualità dell’aria, che si traduce in meno malattie respiratorie e meno danni al cuore. E poi con meno soldi si spende meno in sigarette e alcol, si cucina più spesso a casa, ci si muove di più e si dorme meglio; così i livelli di stress diminuiscono.
Fin qui niente di strano.
Ma emerge anche un fatto curioso: non solo gli uomini che perdono il lavoro bevono di meno ma anche le loro mogli, per una ragione che non è ancora chiara, finiscono per ridurre il consumo dell’alcol.
Ai più poveri però succede tutto il contrario: ci si sbronza di più, soprattutto al venerdì e al sabato, si fuma di più e si consumano più oppioidi.
La questione del lavoro merita un ragionamento a parte. Chi l’ha perso, indipendentemente dalla classe sociale, presto o tardi finisce per non avere più i soldi per i farmaci e così le complicanze da diabete e ipertensione aumentano. Ci sono poi gli effetti del perdere il lavoro su infiammazione (dati pubblicati in questi giorni dimostrano come ci sia un rapporto molto stretto fra livelli di infiammazione stabiliti attraverso la misura di quella che i medici chiamano proteina C reattiva e stress da condizioni socio-economiche precarie) ma anche su immunità e assetto ormonale – tutte cose importanti per un buon funzionamento del nostro organismo. Per non parlare delle infezioni. La recente crisi greca ha ridotto l’uso di spray antizanzare e aghi puliti per chi si inietta sostanze da abuso e questo ha portato a malaria e infezioni da Hiv, anche questo però succede soprattutto ai più poveri. E la salute mentale? Perdere il lavoro compromette la tua posizione nella società, viene meno l’identità che ti eri costruito e perdi stima e fiducia in te stesso. A questo di solito seguono ansia e depressione, difficilissime da controllare, al punto che fra il 2007 e il 2010 negli Stati Uniti ci sono stati 4.750 suicidi in più di quanti ce ne saremmo aspettati. In Svezia e Finlandia invece nei periodi di recessione questo non è successo. Perché? La spiegazione più probabile è che durante la recessione degli anni Novanta loro hanno investito in programmi che aiutassero più persone possibili ad avere un lavoro anche modesto ma che desse loro una ragione per alzarsi dal letto al mattino. E gli investimenti sono stati soprattutto mirati ai servizi di salute e questo è bastato per tenere sotto controllo malattie croniche e casi di suicidio e sembra aver favorito la ripresa economica; di questo chi ha responsabilità di governo dovrebbe poter tenerne conto.
C’è anche chi ha voluto approfondire il legame fra quanto si investe in programmi di salute pubblica (anche in recessione) e crescita economica. Uno di loro è David Stuckler, professore di Economia politica a Oxford e poi alla Bocconi: i suoi studi dimostrano che ogni dollaro investito in salute ne rende tre in crescita, a parte i benefici sul benessere dei cittadini. E ci sono esempi pratici che vanno in questa direzione. Durante la crisi finanziaria dell’Asia del 1997, in Thailandia e Indonesia – che hanno seguito le indicazioni di austerità del Fondo monetario internazionale – si sono avuti molti più morti per infezione rispetto a Paesi come la Malesia che hanno fatto di testa loro, senza tagliare sui servizi alla salute. In Grecia l’austerity ha avuto conseguenze drammatiche sulla salute dei cittadini, degli anziani soprattutto ma anche dei più giovani.
In altre parole risparmiare sui programmi di salute pubblica è sbagliato, persino in tempi di crisi.
Ma che cosa succederà con la prossima crisi globale che è già stata annunciata? Se guardiamo al rischio di ammalarsi di tumore, tanto per fare un esempio pratico, ci si dovrà destreggiare fra gli effetti favorevoli del ridotto consumo di alcol e la difficoltà per chi invece si ammala a procurarsi i nuovi e costosissimi farmaci per i tumori che, certe volte, funzionano. Un’idea sarebbe quella di sfruttare ciò che c’è di buono nella recessione e insieme proteggere i cittadini dagli effetti negativi. Ma come fare in pratica? C’è una soluzione sola, dobbiamo chiedere agli scienziati di studiare questi problemi ancora più a fondo e di farlo tenendo conto anche di diverse realtà e aree geografiche, perché in questo campo è molto difficile generalizzare. Questo però da solo non basta. Una volta che avremo le idee chiare su cosa conviene fare e cosa no in tempo di crisi, sarà necessario che chi ci governa ne tenga conto. Insomma, i politici dovrebbero ascoltare gli scienziati molto più di quanto non facciano oggi.