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 2019  marzo 10 Domenica calendario

L’ultima intervista inedita a Cesare De Michelis

Pubblichiamo uno stralcio dell’intervista di Stefano Lorenzetto a Cesare De Michelis, l’editore della Marsilio morto il 10 agosto scorso. L’intervista è nella parte finale nel libro “Parole per Cesare”. Un volume di 272 pagine che, a partire da domani, si potrà scaricare gratuitamente in pdf all’indirizzo www.marsilioeditori/notizie e in formato e-book, sempre gratis, sulle piattaforme Amazon, Apple iBooks e BookRepublic. 

Mi sa che è venuto il momento di chiarirmi da dove è saltato fuori l’enfant prodige che ho davanti. Parlami dei tuoi.
«Mia madre si chiamava Virginia, ma per tutti era Noemi. Era nata il 17 luglio 1910 a Knittelfeld, nell’Austria asburgica, dove suo padre Giovanni Borghello capeggiava come decoratore d’interni una ventina di artigiani e sua madre Maria Zannier faceva la sarta. La prima cosa che mi viene in mente è che era proprio bella, la mia mamma. Quando penso a lei, rivedo mio papà, ormai vecchio, che la guarda con gli occhi lucidi e le sussurra: “Come sei bella, Noemi”. Allo scoppio della Grande Guerra, dalla Stiria i Borghello, friulani, furono costretti a tornare in patria e si stabilirono a Pinzano sul Tagliamento. I maschi di casa emigrarono in Svizzera, dove c’era il lavoro e la certezza che non sarebbero stati arruolati. La mamma ci raccontava che suo padre, di idee progressiste, lassù aveva conosciuto Lenin, costretto all’esilio e in procinto di rientrare in Russia a guidare la Rivoluzione d’ottobre».
E di tuo papà che mi dici?
«Si chiamava Turno. Era l’ottavo di dieci figli di un pastore evangelico registrato all’anagrafe come Rennepont. Mio bisnonno, il padre di Rennepont, era originario di La Spezia e si convertì al protestantesimo, e più precisamente alle Chiese cristiano-evangeliche libere, quindi non luterane, non calviniste, perché, da fervente patriota, non sopportava che papa Pio IX impedisse l’Unità d’Italia».
Avete la contestazione del sangue.
«Rennepont era l’ultimo di 24 fratelli. I suoi genitori, avendo esaurito i nomi e non potendo usare quelli dei santi cattolici, lo avevano chiamato come uno dei personaggi del romanzo d’appendice I misteri di Parigi di Eugène Sue. Ma per tutti era Cesare, devo a lui il mio nome». 
Perché da Rennepont divenne Cesare?
«Come perché? Te la vedi sua madre che lo chiama? “Rennepontino, vieni, è pronto in tavola. Rennepontino, corri a lavarti le mani”. Cesare alias Rennepont cominciò il suo ministero di pastore evangelico all’albeggiare del Novecento, dopo essersi sposato con una maestra elementare di bassa statura ma di forte tempra, Ida Della Torre, sorella di un italianista che a Bologna era stato allievo di Giosué Carducci. Il nonno dapprima fu mandato a Milano ad assistere il pastore in carica. Nel 1902 partì per la terra di missione».
Africa?
«No, Italia. Andò a Eboli, dove Cristo non si era ancora fermato, né potevano esserci Carlo Levi e gli altri antifascisti spediti al confino dal Duce. In compenso c’era il parroco, che dal pulpito lanciava anatemi contro i nuovi venuti e indicava mio nonno come l’Anticristo, diffidando i bottegai dal servirli, pena le fiamme dell’inferno. Perciò mia nonna Ida era costretta a prendere l’accelerato e andare fino a Salerno per fare la spesa. Intanto sfornava figli: dopo Ilda, che era nata nel 1900, arrivarono Scintilla nel 1903, Eurialo nel 1904, Niso nel 1906, Luce nel 1907, un primo Turno che morì in fasce, Fedro nel 1910, di nuovo Turno nel 1912, Irno nel 1913 – i genitori avevano finito i nomi dei personaggi dell’“Eneide”, per cui gli toccò quello del fiume piuttosto impetuoso che scorre nel Salernitano – e infine Miriam nel 1915. Quando venne al mondo mio padre Turno, nonno Rennepont era già stato trasferito da Eboli a Vicenza. Nella casa di contrà San Faustino accolse anche due nipoti rimasti orfani (...)».
Credo che di uomini così nel terzo millennio non ne nascano più.
«A noi nipoti non fu concesso il privilegio di poterlo conoscere, perché morì all’inizio degli anni Trenta. Ma la sua eredità morale ce la lasciò riassunta in due massime eterne. La prima la scrisse sul frontespizio della Bibbia che donò a suo figlio Turno nel giorno della prima comunione e che papà riportò sulla copia che toccò a noi il giorno della nostra: “A te dico quello che tuo nonno ha detto a me: sii fedele infino alla morte” (Apocalisse 2, 10). La seconda tramandata oralmente: “Intransigente sì, intollerante no”». 
Quanti sono i fratelli De Michelis?
«Cinque. Gianni nato nel 1940, io nel 1943, Marco nel 1945, Giorgio nel 1947 e Maria Ida nel 1951».
Ricordo male oppure una volta mi raccontasti che vostra madre pretese che diventaste tutti cattedratici?
«Ricordi bene. Abbiamo fatto tutti e cinque i professori universitari (...)».
Tua madre, da dove si trova, ne andrà fiera.
«Alla mamma era rimasta sul gozzo la carriera mancata all’Università di Padova, dove si era laureata in Chimica e farmacia a prezzo di immani sacrifici. Ricordava sempre che la sera la scelta era fra il cine e la cena, nel senso che, se voleva andare a vedere un film, doveva rinunciare al pasto. Sognava una carriera da ricercatrice. Ma il professor Carlo Sandonnini, suo maestro di scienze e di vita, quasi un secondo padre, era stato chiaro con lei fin dall’inizio: la precedenza nell’insegnamento andava ai maschi. E così fu. (...) Ma la sofferenza per non aver potuto fare la docente le rimase dentro sino alla fine. Un po’ la capisco».
Lo dici da ex cattedratico di lungo corso?
«Io sostengo da sempre che i professori universitari non hanno uno stipendio bensì una rendita, come gli abati del Settecento. Per il fatto stesso di esistere, ricevono un assegno mensile più o meno cospicuo, che è il risultato di una loro partecipazione attiva alla vita della società. Un mestiere dignitosamente retribuito con il vantaggio di non avere vincoli».
Tuo padre che lavoro faceva?
«Si era laureato in Ingegneria. Gli sarebbe piaciuto disegnare edifici e persino mobili, un’attività in cui talvolta si esercitava ma solo per suo diletto. Divenne dirigente in una fabbrica metallurgica di Porto Marghera, la Montevecchio, che tra i soci aveva la Montecatini. Il papà era un uomo veramente buono. Però, essendo figlio di un pastore protestante, era rigidissimo. Se si arrabbiava, stava zitto, non ti rivolgeva più la parola. Invece la mamma era energica in un modo impressionante, anche un po’ impulsiva. Ci rimproverava sempre di essere “massa passui”, troppo ben pasciuti (...). Era appassionata anche nel bastonarti. Mio padre sapeva di aver ragione. A mia madre non bastava: pretendeva che tutti riconoscessero che aveva ragione lei. E fu così sino all’ultimo, per esempio con mio fratello Gianni caduto in disgrazia, che ovviamente scantonava per non farsi insultare».
Cioè che cosa accadeva?
«Il papà cercava conforto negli altri figli, voleva la conferma che il suo Gianni avesse agito rettamente e non dovesse provare vergogna. La mamma invece si sfogava con me: “Devi dire a tuo fratello questo, devi dirgli quello, io gliel’avevo raccomandato di non mettersi con Tizio e con Caio, io lo sapevo che sarebbe finito nei guai”. Con l’aggravante che Gianni si era laureato in Chimica come lei, aveva avuto i suoi stessi professori, e questo raddoppiava la delusione di mamma. Era una geremiade continua, sconsolata, senza fine, in cui si mescolavano pubblico e privato, passato e presente, leggerezze e sventure. Lo stesso piagnisteo di quando prendevo 4 in latino e lei m’inseguiva per casa per un intero pomeriggio dicendomene di tutti i colori».
Tuo padre non ti castigava?
«Per lui uno che andava male negli studi era semplicemente un idiota, il quale trovava la sua punizione nel fatto stesso di esistere. Non concepiva proprio che un idiota potesse andare a scuola».
Quando sono venuti a mancare i tuoi genitori?
«Vent’anni fa. Prima mio papà e poi mia madre, nell’arco di soli quattro mesi. Così diversi e così uguali, complementari anche nella morte. Non ho ricordi di un loro litigio, non uno che sia uno. La mamma vegliò papà nell’agonia per notti e notti, sempre tenendogli la mano. Compì fino in fondo il dovere di moglie assistendo impietrita alla sua sepoltura. Tornata a casa, decise di morire anche lei. Senza Turno, la sua vita non aveva più alcun senso. Del loro amore, posso solo dire che rispettò in pieno il precetto – “Sii fedele infino alla morte” – che il nonno Cesare Rennepont aveva tratto da un versetto dell’Apocalisse di Giovanni. E fedeli lo furono per davvero, fino alla morte».