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 2019  marzo 10 Domenica calendario

Intervista a Eugenio Barba

Da una storia ciascuno può trarre la morale che vuole. A me l’incontro con Eugenio Barba, uno dei grandi artisti del teatro contemporaneo, ha insegnato alcune cose. Come se attraverso la sua vita potessi leggere un pezzo di mondo perduto e ritrovato. Eugenio ha 83 anni, i capelli da ragazzo imbiancato precocemente e il volto che sembra intagliato nel legno. Se non è in giro per il mondo con l’Odin Teatret o da solo, vive a Holstebro nel nord della Danimarca: «Ci arrivai nel 1966 portando con me l’esperienza teatrale che avevo maturato a Oslo. Non credevo che sarei durato così a lungo».
Lei è italiano, di dove?
«Sono nato e cresciuto a Gallipoli. Con una madre che mi ha lasciato molta libertà. Mio padre morì a causa di una nefrite cronica. Furono i postumi di una guerra che aveva perso. In casa pochi soldi. Desideravo fare il pilota di aerei. Liceo militare alla Nunziatella di Napoli: dal 1951 al 1954».
Perché abbandonò la carriera militare?
«Riscontrarono una forte miopia e, contemporaneamente, mi accorsi che non avevo nessun interesse per l’esercito. Guardavo i miei insegnanti, spesso ufficiali decorati nell’ultima guerra, e pensavo: il massimo che mi può accadere è finire a insegnare a delle nuove reclute. Avevo imparato la matematica, il greco antico e il latino. Ma non conoscevo nessuna lingua viva. Decisi di partire per il nord Europa. Avevo 17 anni».
Cosa la spinse fin lassù?
«Immaginavo una terra che fosse la più lontana dalle mie origini e al tempo stesso vicina ai miei desideri. Raggiunsi la Svezia in autostop. Pensai di fermarmi. Non avevo permesso di lavoro né di soggiorno. Per un po’ feci lo sguattero. Mi spacciavo per brasiliano. Erano più tollerati degli italiani. Decisi che sarei andato a lavorare nelle miniere di Kiruna in Lapponia».
Si voleva fare del male?
«No, era il prolungamento di un’avventura. O di una fantasia. Fui però scoperto dalla polizia e mi sbatterono fuori. Mi lasciarono a Narvik. Paradossalmente la cosa mi entusiasmò».
Perché?
«Avevo letto Sotto la stella d’autunno di Knut Hamsun. Quel romanzo bellissimo raccontava le inquietudini dello scrittore e il vagabondaggio nella Norvegia del nord. Da Narvik scesi verso Olslo. Tornai al mondo urbano. Un giorno mi accorsi che non trovavo più il mio alberghetto. Ero smarrito. Chiesi aiuto a un marinaio. Mi ci condusse. Volle sapere cosa facevo. Dissi che non avevo lavoro né soldi. Mi accompagnò, il giorno dopo, presso un’officina meccanica dove cercavano un assistente saldatore».
Era un lavoro per specialisti?
«Sarei stato apprendista. Il padrone dell’officina mi fece eseguire alcune prove. Non capivo una parola di quello che si dicevano con il marinaio. Alla fine venni assunto. Per sei anni ho lavorato come saldatore. Fu un’esperienza straordinaria, sia umana che professionale».
Cosa aveva di particolare?
«Eigil, il proprietario, in un momento in cui nessuno avrebbe dato fiducia a un giovane senza arte né parte, mi accolse. Mi insegnò un mestiere. Mi permise anche di studiare all’Università e alla sera di frequentare la biblioteca. Nell’officina eravamo una decina. E lui sempre insieme a noi. Politicamente era un conservatore ma aveva anche fatto la Resistenza. Eigil sapeva cosa fosse il rispetto per gli altri. A un certo punto gli dissi che volevo conoscere altre cose e che mi si era presentata l’occasione di imbarcarmi su una nave verso l’Oriente. Mi rispose, se vuoi partire fallo, qui c’è sempre la porta aperta».
Partì?

«Volevo visitare e conoscere l’India. Lavorai come marinaio per un anno e mezzo su un cargo e poi per sei mesi su una petroliera. Quando scendevo, nei luoghi più remoti ed esotici, visitavo templi, musei; ero affascinato dai loro teatri. E quando tornai a Oslo, Eigil mi riprese con sé. Riuscii anche a laurearmi in storia delle religioni con una tesi sul sufismo».
Era irrefrenabile.
«In quello sviluppo di eventi e di decisioni stava nascendo l’interesse per il teatro. Avevo finito l’università, mi chiedevo cosa avrei fatto. Decisi di studiare teatro. Scoprii, attraverso mia madre, dell’esistenza di un bando di borse di studio per la Polonia. In quel momento stavo andando in Israele. Animato da ideali socialisti volevo fare l’esperienza dei kibbutz. Prima di partire inviai il mio curriculum per partecipare al bando».
Quindi rinunciò al kibbutz?
«No, partii convinto che non avrei mai avuto la borsa. Trascorsi sei mesi in Israele, mi affascinava l’idea che fosse una terra che accoglieva gli scampati. La notte mi accadeva di sentire la gente urlare. Era un mondo che si confrontava con l’orrore che si era lasciato alle spalle. Poi a sorpresa arrivò una lettera in cui mi annunciavano che avevo vinto la borsa».
Che fece?
«Presi un treno per Varsavia. Era il 1961. Qualche anno prima Gomulka era andato al potere. In molti sperarono che le cose sarebbero migliorate. Non parlavo una parola della lingua. Il primo anno mi fecero assistere da esterno alla loro scuola teatrale. Credevo nel socialismo e scoprii la corruzione, la censura, la stupidità del regime. Decisi di lasciare la Polonia e di tornare in Norvegia. Era il Natale del 1961. Stavo in un bar a Cracovia, abbastanza disperato per tutto quello che di fallimentare mi stava accadendo. Vidi un giovane con gli occhiali spessi, la barba dostoevskiana, i capelli lunghi e scomposti. Mi incuriosì. Anche lui era solo. Mi avvicinai al suo tavolo. Scambiammo qualche battuta e poi si presentò: sono Jerzy Grotowski».
Sapeva di lui, del suo lavoro?
«Avevo vagamente sentito il suo nome, per me era solo un giovane animato da alcuni progetti teatrali. Mi raccontò che aveva lasciato la politica e si era ritirato a Opole, a una decina di chilometri da Auschwitz, in un teatrino piccolissimo dove lavorava con sette attori. Gli dissi chi ero, raccontandogli un po’ della mia vita, e che avevo scoperto la grandezza di Brecht e del Berliner Ensemble. Veniva da un piccolo villaggio e aveva studiato teatro a Mosca, mi disse. Poi mi invitò a visitare il suo teatrino delle tredici file, così veniva chiamato quel luogo che sarebbe diventato mitico».
Decise di andare?
«Quell’invito mi sembrò un miracolo. Divenni il suo assistente e per circa quattro anni restai a Opole. Fui il tramite tra lui e il resto dell’Europa. Jerzy non poteva uscire dalla Polonia. E fuori non era ancora molto conosciuto. Bussavo alle porte dei grandi intellettuali, come Lévi-Strauss e Caillois, per raccontargli quanto fosse importante e radicale quell’esperienza teatrale. Era un modo anche per proteggere il lavoro di Grotowski, i suoi principi teatrali. Il guaio fu che non riuscii a proteggere me stesso».
Cosa le accadde?
«Quando tornai da uno dei miei viaggi, le autorità polacche mi notificarono che ero persona non grata. Avevo vissuto anni straordinari. Fu un epilogo drammatico. Tornai in Norvegia: non avevo diplomi. Nessuno conosceva Grotowski. Forte di quello che avevo appreso decisi di creare un mio teatro amatoriale. Dalla Scuola Nazionale di Teatro di Oslo mi feci dare la lista degli esclusi».
Esclusi da cosa?
«Quelli che avevano sostenuto un esame e non ce l’avevano fatta. Li contattai raccontandogli la mia esperienza. Insegnai loro ciò che a mia volta avevo appreso».
Cosa esattamente gli insegnò?
«Un teatro dove non si parlava molto, basato soprattutto sul lavoro fisico. Alla fine restarono, o forse devo dire resistettero, due ragazzi e due ragazze. Formammo un piccolissimo gruppo e allestimmo un’opera che ebbe un’accoglienza molto positiva. Un giovane professore danese ci invitò a rappresentarla in Danimarca a Holsterbro».
E voi andaste.
«Arrivammo in quella cittadina, molto religiosa, e battuta dal vento e insidiata dalla sabbia. Facemmo lo spettacolo e un’infermiera, che gestiva un gruppo di attori dilettanti, parlò al sindaco di noi. Scoprimmo che da Holstebro i giovani se ne andavano. Ce lo disse il sindaco che nella vita faceva il postino. Ci disse: io non so come trattenerli, qui non ci sono attrazioni, non si fa cultura. Però abbiamo comprato una vecchia fattoria a un paio di chilometri dalla città. Io non capisco niente di teatro. Ma ho letto delle buone critiche su di voi. Mi piacerebbe se per un po’ vi fermaste qui».
Lei cosa pensò?
«Pensai che era la prima volta che qualcuno mi prendeva in considerazione. Accettai a una condizione: che fosse un teatro laboratorio e che dunque non facessimo spettacolo ogni sera. Bastò una stretta di mano. Seppi che a una ventina di chilometri dalla fattoria Dreyer aveva girato Ordet. Mi sentii investito da una strana euforia».
Perché chiamò la compagnia “Odin Teatret”?
«Il riferimento è a Wotan, di cui Odin è la derivazione. Il Dio del furore ma anche della sapienza. Due forze necessarie per il teatro che stavo immaginando».
La fama l’ha cambiata?
«Forse mi ha reso più responsabile. Più libero. Non lo so. Nei primi anni a Holstebro molta gente protestava. Diceva: ma che fanno questi? Ci prendono in giro con il loro teatro. I soldi che il comune gli dà – ed erano l’equivalente della paga di un operaio – potrebbero essere utilizzati per migliorare i servizi. E il sindaco rispondeva: io non capisco nulla di teatro, ma anche voi non capite nulla. Diamogli tempo. E poi col tempo capirono. Soprattutto videro che la città si ripopolava. Che i giovani non partivano più e che da tutto il mondo venivano a studiare quel nostro modo di fare teatro. Capirono che anche grazie a noi “barbari” Holstebro era rinata ».
A parte Grotowski su cosa ha basato il suo teatro?
«Jerzy è stato fondamentale, ma importanti furono Stanislavskij, Brecht, Artaud, il Living. Coloro che come Sisifo si sobbarcarono la fatica di far salire il teatro sulla cima del ventesimo secolo. Ma il mio primo maestro, senza che lo sapessi, fu Eigil, il lattoniere che mi accolse nella sua officina ed ebbe fiducia in me. Il mio teatro nasce da quella esperienza e dal desiderio di non arrendersi. La vita che trascorsi in quell’ambiente mi ha fatto capire che i valori artigianali e le relazioni tra eguali sono più importanti delle grandi visioni artistiche. Poi, ciascuno deve saper volare con le proprie ali. Il mio teatro non deve parlare di politica ma fare politica con altri mezzi».
Pensa di esserci riuscito?
«Penso che se fai questo, nello stesso posto, per 55 anni allora qualcosa cambia. È come cambiare il Sahara. Non puoi farlo dall’oggi al domani, perché il cambiamento è impercettibile e lo si apprezza solo nella lunga durata. In una novella di Borges il protagonista dice che si inginocchiò a trecento metri da una piramide. Prese un pugno di sabbia e se lo fece scivolare tra le dita. Aveva cambiato il Sahara. Questa è la metafisica del mio lavoro».
Una metafisica rende il mondo un’esperienza immobile.
«Come il deserto anche la metafisica è solo in apparenza immobile. Mi ricordo di un viaggio a Mosca nel novembre del 1985 ero lì con l’Odin Teatret per uno spettacolo. Visitai il Mausoleo di Lenin. Fuori la temperatura era di 11 gradi. Dentro mi sembrava di contemplare il gelo della storia. Il cadavere imbalsamato di uno dei miti più duraturi del ‘900 aveva la pelle di una bambola di celluloide cosparsa di eczemi. All’esterno lapidi e tombe: Stalin accanto a Kamanev, la sua vittima riabilitata, Zhdanov accanto a Gorkij che nel ’36 aveva fatto avvelenare».
L’assurdo trionfo di una storia durata 70 anni.
«In quel delirante immobilismo, generazioni di tiranni avevano messo la storia al riparo dalla vita. Pensai che la sola missione del teatro, l’unica che valesse la pena affrontare, fosse di scongelare quell’assurda ibernazione. Il teatro avrebbe trasformato in danza, canto e azione quello che nel Mausoleo della vita era solo freddo e morte».
Ci voleva uno “straniero” per realizzare tutto questo?
«Non ho mai voluto una patria costituita da una nazione o da una città. Non ci credo. Eppure ho bisogno di una patria. Per me è facile dire oggi: il teatro è la mia patria. Mi ricordo di una frase di Jean Amery: di quanta patria ha bisogno un uomo? Potrei aggiungere: di quanti stranieri abbiamo bisogno perché una patria abbia un senso? Ecco su cosa dovremmo oggi tornare a interrogarci».