Robinson, 10 marzo 2019
In morte di Fabrizio D’Amico
Fabrizio D’Amico che ieri, troppo presto, ci ha lasciato (era nato nel 1950) ha cominciato la sua lunga carriera di critico d’arte sulle pagine di questo giornale sul quale ha continuato a scrivere fino a poco tempo fa, prima di cedere alla malattia che lo affliggeva da tempo. Ricordo benissimo le riunioni che si tenevano ogni settimana per confezionare la pagina dell’arte: era il 1977 e vi partecipavo come redattore da poco assunto.
D’Amico, fresco di laurea e di servizio militare, vi arrivava con Giuliano Briganti, il grande studioso e maestro che della critica d’arte era il titolare, l’autorità indiscussa. D’Amico si era laureato con Valentino Martinelli a Roma con una tesi su Giovanni Lanfranco: all’epoca non aveva ancora precisi interessi per il contemporaneo che si svilupparono però quasi subito divenendo poi predominanti. In parte assecondavano le necessità del giornale e mettevano a frutto una fortissima sensibilità estetica, maturata anche nella frequentazione di Cesare Brandi e di Cesare Garboli. Veniva, D’Amico, è quasi inutile ricordarlo, da una famiglia di intellettuali di alto livello che era una scuola di per sé. Come il padre Alessandro, studioso di teatro e a sua volta figlio di Silvio, critico teatrale cui è intitolata l’Accademia d’arte drammatica, Fabrizio aveva frequentato il liceo Massimo retto dai padri Gesuiti. La madre, Maria Luisa Aguirre, era nipote di Luigi Pirandello cui aveva dedicato un volume-album di foto e di ricordi. Presto ci ritrovammo, Fabrizio ed io, a frequentare insieme Toti Scialoja. D’Amico era interessato alla sua pittura, ma anche alla sua avventura americana che gli aveva permesso di conoscere la rivoluzione dei Pollock e dei De Kooning e in qualche modo di farla propria. Le serate in casa Scialoja in piazza Mattei, erano spesso memorabili. Si incontravano, in casa Scialoja, letterati ed artisti: talvolta venivano da Milano Raboni e la Valduga. Su Scialoja D’Amico ha scritto molto curando anche diverse mostre, compresa quella postuma e memorabile di Verona allo Scudo di Francia. Ma intanto altri e fortissimi interessi erano cresciuti in un orizzonte internazionale che aveva in Parigi e Londra le due città cardine del fare artistico in Europa. Non è facile recuperare, sia pure per sommi capi, i momenti maggiori di una attività distesa nell’arco di oltre quattro decenni nei quali l’impegno del critico si somma a quella del docente all’Università di Pisa. Nel mio ricordo spiccano le passioni durature, l’esplorazione degli anni Cinquanta in Italia, attraverso l’attività del gruppo di Forma 1, nato a Roma nel ’47. Qui corre l’obbligo di fare qualche nome almeno: quello di Achille Perilli, di Antonio Sanfilippo, di Carla Accardi e di Giulio Turcato. Poi ci fu la lunga e mai abbandonata passione per la scultura. È del 1989 la mostra allestita a Cagli per Eliseo Mattiacci, da lui poi a lungo frequentato, e intitolata “Pensieri spaziali”. Per meglio riflettere sulla scultura, D’Amico aveva fondato una rivista, i Quaderni di scultura contemporanea. L’ultima volta che Fabrizio è uscito di casa per una mostra (era ormai fortemente condizionato nei movimenti) è stata per visitare l’antologica di Lorenzetti alla Gnam di Roma di cui poi aveva scritto per il giornale. Ma sono molti gli artisti con cui era entrato in sintonia, seguendoli nel tempo e scrivendone col quel suo stile personalissimo e spesso poetico, inteso a tradurre e trasmettere l’emozione suscitata da un’opera.Una delle ultime volte che sono stato a trovarlo a casa gli ho chiesto se gli era mai capitato di sognare un’opera d’arte. Mi aveva risposto che no, non gli era mai capitato e avevo concluso che forse con le opere d’arte si sogna ad occhi aperti.