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Chi diavolo è davvero Gian Ruggero Manzoni, classe 1957 da Lugo di Romagna, pronipote del fu Alessandro, quello dei Promessi sposi e cugino di Piero, quello della “merda d’artista”? E che razza di storia è la sua vita raccolta da Pier Paolo Giannubilo e diventata un romanzo ora candidato allo Strega, Il risolutore? Un artista, un poeta, un rassicurante insegnante di storia dell’arte o — come lui racconta — anche e soprattutto un irregolare del ’ 900, un randagio della vita, partito, come dice lui, «da Baudelaire e Proudhon e arrivato a Jung passando per l’erotismo di Caballero e le Ore» e soprattutto — dice ancora lui — «uomo di ventura» in operazioni paramilitari all’estero «sotto l’ombrello del fu Sismi e della fu Gladio (la struttura clandestina militare anticomunista della Guerra fredda, ndr)»?
Chi ha recensito il romanzo, lo ha battezzato “il Limonov italiano”. Lui, meno prosaicamente, si definisce un “fascio-comunista” alla Pennacchi. Vuoi per genìa (il padre, Giovanni, è partigiano nella XXVII Brigata Garibaldi, dove è ufficiale di collegamento con l’intelligence angloamericana che accompagna le divisioni alleate ad Anzio, e la madre, Enrica, 87 anni, è tuttora una fascista repubblichina, con cui lui, figlio unico, è tornato a vivere insieme alla figlia di 23 anni avuta da una compagna da cui si è separato), e vuoi perché la coda del ’900 italiano ha prodotto anche questa roba qui. «A vent’anni, nel 1977, ero studente al Dams di Bologna, militavo nella Federazione comunista anarchica e mi beccarono con una P38. Presi un anno e sei mesi. Mio padre aggiustò le cose grazie a un chirurgo bolognese amico di famiglia. Il tipo era nella Gladio, mi mise in mano ai carabinieri e lì, senza saperlo, strinsi il patto che ha segnato la mia vita. Feci un anno di leva nel battaglione San Marco, mi addestrai con i Servizi e, nel 1978, mi ritrovai alle dipendenze di un tenente colonnello dell’Arma a Verona, aggregato al comando Nato, che di lì in avanti mi avrebbe richiamato per missioni coperte all’estero del nostro Servizio». Nel frattempo, lui che nasce trotzkista e ha militato nell’Autonomia bolognese, si ritrova a Roma a discutere con Giuseppe Dimitri e Roberto Fiore di Terza Posizione di come proseguire la lotta armata.
La vertigine potrebbe finire qui. E invece non è che il prologo. Non fosse altro perché a un certo punto, sempre lui, il pronipote di Manzoni, si alza il maglione nero da insegnante di liceo e mostrando la pelle bianchissima e la silhouette corpulenta di un fisico a cui nulla è stato risparmiato, ti mostra il Sacro Cuore di Gesù tatuato sul petto — «Me lo feci quando mi salvai miracolosamente in una missione in Bosnia dove mi centrò una scheggia di mortaio» — e un paio di mani disegnate sugli avambracci. «Quella di Dio che uccide», a destra. «E quella del Re che governa», a sinistra. Aggiungendo che di “tatuaggi” ne ha una ventina, «ovunque». E che, continuando con i numeri, nella sua vita non in chiaro, quella di «uomo di ventura per conto dei Servizi» ha ammazzato, tra gli anni 80 e i 90, nelle «missioni all’estero», «una dozzina di uomini». Arabi, slavi. In Libano, 1982, nell’allora Cecoslovacchia, 1989, in Bosnia, 1994 e in Serbia, 2000. Come il libro racconta, del resto.
Missioni all’estero con licenza di uccidere. Un’enormità. Di fronte alla quale, vale il prendere o il lasciare. Giura Gian Ruggero che la sua storia è «tutta vera», cadaveri compresi. Che il doppio fondo del nostro ’900 abbia avuto le sembianze, l’odore e la violenza che ha conosciuto lui in prima persona. «Questo libro è la mia confessione agli uomini » , dice, « perché quella a Dio la feci a Camaldoli nel ’98 confessandomi a padre Bernardino, oggi maestro dell’Ordine dei Camaldolesi». «E non mi importa nulla se qualcuno pensa non sia la Verità». Né fa una piega quando gli si dice che — interpellata daRepubblica — l’Intelligence militare (oggi Aise, già Sismi) sostenga che di Gian Ruggero Manzoni «non c’è traccia negli archivi disponibili». Pier Paolo Giannubilo, che alla “ confessione” ha lavorato cinque anni trasformandola in un libro, con quella domanda — è vero? — ha preferito siglare un armistizio. Fa il professore di liceo oltre a scrivere e — dice — «non ho e non avevo gli strumenti per verificare se i fatti fossero veri o meno. Non sono né un saggista, né uno storico. So solo che la vicenda di quest’uomo di cui sono diventato amico mi ha travolto e che quei fatti di cui dice di essere stato protagonista e testimone hanno una loro coerenza, di tempo, di luogo, di personaggi. E questo mi è bastato per scriverne la storia, lo svolgimento, che non a caso ho chiamato romanzo».
Del resto, Manzoni nei dettagli scende, sì, ma fino a un certo punto. Chi era l’asserito uomo del Sismi che lo richiamava per le missioni all’estero e che nel libro ha il nom de plume Lincoln? «Un capitano dei carabinieri di stanza a Verona presso i comandi Nato». È vivo? «No, è morto». Quanto e da chi venivate pagati per queste missioni? «Fino a un milione di lire al giorno. Da produttori di armi, diciamo pure dall’indotto della Difesa e da chi aveva interesse a che in certe parti del mondo si combattessero certe guerre». È rimasto in contatto con i suoi ex compagni di ventura? «Con qualcuno. Un paio sono ancora dentro il Servizio». Ha un documento o qualcosa che le somigli che dimostri il suo servizio per il nostro ministero della Difesa? «Una risposta negativa a una mia richiesta di pensione per le operazioni e il servizio svolto. La conservo in un mio archivio».
Prendere o lasciare, dunque e di nuovo. Con l’addendum che Manzoni racconta anche di quello che definisce « il costo pagato per questa sua seconda vita clandestina» . «Il morbo di Crohn, per cui venni operato nel ’96». E, tre anni prima, nel ’93, la sofferenza psichica che gli costò « tre settimane di ricovero in una clinica psichiatrica a Roma». «Avevo cominciato a essere aggredito da fantasie di suicidio e mi venne diagnosticata un’ossessione fobica. Fu un periodo alla Qualcuno volò sul nido del cuculo. Mi sparavano in vena cicli di Anafranil, un potente antidepressivo che aveva effetti di aumento della libido e tenuta dell’erezione. E dire che avevo già una forma di bulimia sessuale che mi faceva scopare anche cinque, sei volte al giorno. Quando uscii dalla clinica dissi ridendo al professore se ne potevo avere venti scatole».
Manzoni si congeda con una constatazione che vuole essere una profezia e una chiave del suo ’900. «L’Italia è rimasta quella dell’ 8 settembre ’43. Non si è mai mossa da lì » . E con un’ammissione. In fondo, delle sue due vite, quella d’artista e quella di asserito agente con licenza di uccidere, «ho preferito la seconda, perché è quella che avevo sempre sognato. Forse — dice sorridendo — perché il ramo di noi Manzoni di Romagna è sempre stato quello di una nobiltà di spada. Gli Estensi ci diedero il titolo di Conti perché a fine ’500 strangolammo il cardinale Bentivoglio nella villa La Frascata: dopo una notte di orge e baccanali».