La Stampa, 10 marzo 2019
Il robot spietato col paziente
Non è facile dire a una persona che sta per morire. Per un medico spesso però è necessario, non lo fa certo a cuor leggero, anche se è parte del suo mestiere. Quando non c’è più niente veramente da fare per il paziente, la terapia estrema è l’aiuto a sostenere l’angoscia dell’abisso che attraversa quella persona.
Un medico californiano ha trovato il sistema per risparmiarsi l’onere di annunciare l’epilogo infausto di una terapia intensiva. Ha mandato un video robot in camera del settantanovenne Ernest Quintana, via Skype ha video annunciato in diretta, a lui e famiglia, che non c’era più niente da fare: non avrebbe mai rivisto casa sua. La nipote, che era accanto al nonno morente, ha ripreso a sua volta con lo smartphone il robot messaggero e, dopo il decesso, ha reso pubblico il fatto. L’ospedale si è scusato, promettendo che sarebbe stato riconsiderato l’uso dei robot in quella funzione. Ora viene da immaginare che quella del «devi morire» in videochat era considerata una procedura, fino a quel momento, possibile; se non ci fosse stata sua nipote veloce a filmare tutto, il robot tristo annunciatore avrebbe continuato a visitare agonizzanti.
È noto l’uso di robot simili per monitorare persone anziane a casa, anni fa si parlò anche a Roma di una sperimentazione all’avanguardia, andai a trovare la signora che aveva fatto da cavia; tutto sommato non le dispiaceva videochattare con il suo medico attraverso un totem capace di misurarle la pressione. In Giappone, già da molto tempo, sono impiegati animaletti robotici parlanti per interagire con persone malate di Alzheimer. Chi già è capace di prevedere il futuro nel rapporto tra uomini e macchine afferma con sicurezza che, tra qualche decennio, deliziosi androidi sostituiranno egregiamente sia amanti sia badanti. Tutto sommato riusciamo persino a fare pace con l’idea che sarà una cortesissima macchina cyber infermiera ad accudirci, sempre meglio dell’orrore che si vede baluginare negli ospizi, quando dalle telecamere nascoste dalle forze dell’ordine troppo spesso appaiono sale di supplizio.
Non eravamo però pronti all’idea che da un monitor potremmo sapere via chat che dobbiamo morire, che ingenui a non averlo pensato prima. Eppure non poteva essere che così. Non chiudiamo forse i nostri amori via WhatsApp? Anche quello per qualcuno corrisponde un po’ a morire, ma è molto spiacevole farsi carico dell’angoscia di chi il trauma lo subisce, quindi ci siamo scaricati anche dalle responsabilità degli oneri sentimental-amorosi. Restava solo il peso di dover gestire la comunicazione de visu della morte altrui, quella vera, quella da cui nessuno torna indietro. Di sicuro è pesante dire a una persona che sta per morire, e le macchine sono state inventate per prendersi loro il carico dei nostri pesi.
Pensiamo forse che, dal caso Quintana, qualcuno farà una battaglia civile per tenere fuori la morte dalle deleghe relazionali che stiamo attribuendo a macchine?
Noi siamo già morti ogni giorno quando Facebook ci propina quello che facevamo ed eravamo un anno fa, due anni fa, dieci anni fa. Condividiamo felici il mausoleo digitale che un algoritmo edifica a nostra futura memoria, dovremo nostro malgrado accettare che, persino il conto alla rovescia dei nostri giorni, ci arriverà attraverso la sua mediazione.