Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  marzo 10 Domenica calendario

Biografia di Johnny Dorelli raccontata da lui stesso

 Giorgio Guidi, in arte Johnny Dorelli: già, allora andava di moda «fare l’americano»...
«Mezzo americano lo sono. Nato a Milano e sfollato a Meda, dopo la guerra papà, tenore, venne scritturato a New York: nome d’arte Nino D’Aurelio, storpiato dagli americani in D’Orelli. Così il cognome mi rimase appiccicato, anche perché divenni una star dei concorsi canori tv: vinsi per otto puntate di fila nella trasmissione condotta da Robert Alda, l’attore che interpretava George Gershwin nel film Rapsodia in blu. Cominciavo così: “Oj Marì, oj Marì...”. Prima in napoletano, poi a swing. Accadde tutto per caso. Un giorno arrivò a New York un amico di papà invitato in una trasmissione. “Nino, fammi accompagnare da tuo figlio”. Dietro al palco c’era uno Steinway a coda. Io studiavo il contrabbasso alla High School of Music and Art e prendevo lezioni di pianoforte. Nell’intervallo cominciai ad accarezzare i tasti di quella magnifica preda. Due note e mi venne un colpo: dietro di me c’era Percy Faith, il compositore della colonna sonora di Scandalo al sole. “Perdoni...”. “No, vai avanti: te la senti di partecipare a una trasmissione?”».
Da Meda a New York: che botta...
«Io e mamma giravamo con il naso in su mangiando spesso per strada. I musicisti vivevano nel loro mondo. Presto, però, ne conoscemmo un altro. Morì l’impresario di papà e il suo contratto passò al proprietario del ristorante Zi’ Teresa. Gente simpatica, italiani, gentilissimi. Poi capimmo che non erano proprio dei bonaccioni. Degli ingaggi si occupava don Paolino Palmieri e ogni tanto apparivano altri “don”: Joe Barbara, Vito Genovese... Non bastasse, allo scadere dei cinque anni in America ci obbligarono a uscire dal Paese per non darci la residenza. Tornammo in Italia lo stretto necessario e mamma rivide una vecchia amica, Igea, conosciuta quando studiava ballo alla Scala. “Venite a cena da noi, così vi presento mio marito”. Ci mandarono a prendere con un macchinone, salutammo Igea e, poco dopo, arrivò il marito. “Mama, mi ch’el lì ‘l cunusi”, lo conosco. “Tas”, disse mamma. Mamma diceva sempre “tas”, taci. “Mama, l’è minga el Luchi Luciano?”. “Sì l’è lü, ma tas”. Lucky Luciano parlava di persone che avevamo conosciuto in America e di boxe. Io raccontai di quando Jack La Motta mi mise ko. Di ritorno dal Madison Square Garden mi portò un paio di guantoni. Li indossai e lo sfidai. Gli bastò sfiorarmi per stendermi come una pelle di fico. Mamma prese il mattarello e glielo picchiò in testa». 
In Italia ebbe subito vita facile, vero?
«Tornammo a Meda nel 1955. Feci la gavetta nell’avanspettacolo e cantando per la casa editrice musicale napoletana Bideri. Guadagnavo 7 mila lire al giorno: 4 a casa, 3 per vivere. Finalmente venni scritturato dalla Rai per Il Musichiere, ma feci solo tre puntate perché Ladislao Sugar mi spedì a Sanremo in coppia con Domenico Modugno. Avevo 20 anni, cantammo Nel blu dipinto di blu e arrivammo primi».
E cominciò a «volare».
«Non proprio. A Meda mi accolsero in piazza 5 mila persone, le stesse che una settimana dopo parteciparono ai funerali di papà. Si sentì male in piazzale Cadorna, a Milano, dove aspettava il treno per Meda. Lo ricoverarono all’ospedale di Seregno, dove arrivò subito mio cugino Ventura, medico. Scosse la testa: “L’è mei ch’el vaga”, non c’era più niente da fare. È morto sull’ambulanza mentre lo portavamo a casa. Rimasi solo con tre donne: nonna, mamma e Ivana, mia sorella di 6 anni. Lo zio mi prestò i soldi per il funerale. L’anno successivo vinsi ancora il Festival con Modugno cantando Piove. Ma il terzo anno rifiutai l’accoppiata: dovevo capire cosa potevo fare da solo. Arrivai decimo. Modugno secondo. Venne nel camerino e mi mollò un ceffone: “Così impari!”. Nel frattempo erano cominciati i problemi di salute: ho avuto più noie fisiche che successo. Mi ero già infilato la punta di un pugnale delle SS in un occhio nel ’45. Dopo la morte di papà, per lo stress, persi la voce. Dovetti subire un intervento alle corde vocali senza anestesia. Dopo un mese di silenzio dissi: “Mamma”, e mi uscì una voce che neanche un evirato cantore... Per fortuna recuperai. Ma non era finita lì: a Londra, dove recitavo in Aggiungi un posto a tavola, uscii dal Savoy per andare a teatro dimenticando che le auto circolano al contrario. Un taxi mi spiaccicò contro a un palo e andai in coma. Però è vero, cominciai a girare i primi film e ad avere successo. La grande notorietà la devo all’Italia dei buoni sentimenti: la canzone Carissimo Pinocchio e lo sceneggiato Cuore».
Sui palcoscenici sono sbocciati i suoi grandi amori, tutte donne bellissime: come accadde con la prima, Laura Masiero?
«Aveva dieci anni più di me. Eravamo sul set di Tipi da spiaggia. Dormivamo all’Hotel San Domenico Palace di Taormina e avevamo i balconi comunicanti. Una sera scavalcai l’inferriata ed entrai nella sua camera. Due parole e la baciai. Ero così impacciato che le strappai la camicia da notte. Dalla vergogna, fuggii. L’indomani, domenica, tutti i negozi erano chiusi. Tornato in albergo, bussai alla sua porta: “Che c’è?”. “Non ho trovato una camicia da notte da comprarti”. Lei scoppiò a ridere e, dopo un po’, nacque nostro figlio Gianluca. Conobbi invece la mamma di Gabriele, Catherine Spaak, mentre interpretavamo La Vedova allegra. Donna difficile e bellissima. Per due mesi quasi non mi salutò poi, due giorni prima della fine, prese l’iniziativa. Mi invitò nella sua camera proprio il giorno che stavo malissimo per colpa degli stivali realizzati dal costumista per alzarmi un po’. Mi si gonfiarono i piedi e avevo dei mancamenti. Le risposi: “Ti spiace se facciamo domani?” ». 
Poi tutto finì in Gloria.
«Con Gloria Guida siamo insieme da 39 anni. Ovviamente il primo passo l’ha fatto lei. Recitavamo nella commedia musicale Accendiamo la lampada e fingevamo di darci un bacio. Il pubblico non vedeva e non era necessario appoggiare le labbra. Una sera, però, mi mollò un bacione vero e io cominciai a frequentare il suo camerino. Con una certa eleganza. Ma se ne accorsero tutti. Trentanove anni: abbiamo litigato tanto facendo sempre pace. Il segreto? Rigare dritto. L’ho sposata due volte, prima civilmente, poi in chiesa, ed è nata Guendalina».
Una fama di sciupafemmine usurpata!
«Sciupafemmine? Sono l’uomo più timido che conosca, talmente imbranato che nelle donne scatta il meccanismo di protezione. Quando girai Il Cappotto di Astrakan dovevo infilarmi a letto, entrambi nudi, con Carole Bouquet. Ce l’ha presente? Poi mutava la scena e dovevamo aspettare che cambiassero le luci. Ero così contratto che mi addormentai. Mi svegliò un elettricista: “A’ froscio, svéjate!”». 
Un rapporto complicato?
«Con Monica Vitti in Amori miei. Un caratterino... L’ho fatta piangere. In una scena ero di spalle e inquadravano lei mentre parlava, poi toccava a me. Mentre io recitavo lei ruotava la spalla e toglieva l’attenzione dalle mie parole. Anche il regista glielo fece notare. Per tutta risposta scoppiò a piangere, mi mandò a quel paese e scappò via. Allora presi la bicicletta, la rincorsi, la caricai sulla canna e la riportai indietro. Ma niente da fare, litigi tutto il giorno». 

Lavorò in Rai fino a quando arrivò la sirena Berlusconi. Non deve essere stato facile?
«Con il mio carattere in Rai non c’erano problemi. Lasciavo fare, come quando Modugno mi diede lo schiaffone. Poi un giorno mi chiamò Mike Bongiorno. In America mi metteva la sedia sotto per farmi arrivare al microfono e nascondeva la Gazzetta dello Sport per non farsela rubare da papà. “Ti chiamerà Silvio, non puoi dire di no”. Quando lo incontrai, si mise al pianoforte e cantò qualcosa in francese, poi toccò a me. Dopo i primi anni, però, cominciò a chiedermi di fare le trasmissioni della mattina, come Corrado. Non era per me».
Grandi amici?
«Giuseppe Di Stefano. Mi portava ovunque, alla Scala, al Metropolitan. A New York passava l’ultimo dell’anno da noi ma alle dieci spariva. Raggiungeva una villa sul fiume, dove abitava Arturo Toscanini. Si sedevano uno di fronte all’altro e a mezzanotte brindavano. Il suocero di Di Stefano lavorava nel teatro dove provava Toscanini. Mi faceva entrare di nascosto e accucciare per terra nella terza fila: “Non fiatare”. Ascoltavo le prove, condite di feroci incazzature, del maestro. L’unico che si poteva prendere delle libertà era Di Stefano. Pippo strascicava le vocali (“...questa o quellaaa per me pari sono...”) e durante le prove lo faceva ancora di più per provocare lo sguardo iniettato d’odio di Toscanini. Una volta tirò la corda più del dovuto: disse al maestro di andare più veloce perché non ce la faceva con la voce. Toscanini cedette, accelerò, poi lanciò la bacchetta e se ne andò imprecando. Allora Di Stefano fece rifare il pezzo più lento del dovuto e con la voce ce la fece benissimo. Poi alzò il braccio destro e, nel gesto dell’ombrello, si diede una pacca sull’avambraccio con la mano sinistra: “tiè!”».