Corriere della Sera, 10 marzo 2019
Algoritmi capaci di leggere i volti
Pensate a una macchina della verità tascabile, un Piccolo Fratello degno di Orwell capace di capire – o carpire – le vostre emozioni. Ora guardate il vostro smartphone: è capace di tanto? Sì. È già scienza, non fantascienza.
Affectiva è una società nata nel 2009 come spin off del Mit di Boston. Può contare su 4 miliardi di informazioni elaborate da 7,5 milioni di volti provenienti da 87 diversi Paesi. Magari, tra di essi, c’è anche il vostro. Dietro tutto c’è l’ormai immancabile algoritmo di turno che promette di sapere leggere il nostro viso, ciò che vorremmo celare o che magari esprimiamo inconsciamente in maniera impercettibile e incontrollata.
La ricerca oggettiva delle emozioni non è nuova. Come «scienza» è nata negli anni Ottanta da personaggi come lo psicologo statunitense Paul Ekman, uno dei primi a considerare le emozioni non come un bagaglio culturale ma come un primitivo imprinting biologico. In uno dei suoi esperimenti più famosi mise a confronto due culture molto distanti come quella americana e quella giapponese dimostrando che avveniva esattamente il contrario di quanto ci si aspettasse: proprio a causa dei fattori sociali e culturali i giapponesi sono spinti a «nascondere» le proprie reazioni emotive in pubblico. Che però in privato non sono dissimili.
Ekman per redigere un manuale delle emozioni primarie (vergogna, colpa, eccitazione, divertimento) studiò una popolazione della Papua Nuova Guinea. Nell’era degli emoji è facile argomentare che nella nostra socializzazione online tendiamo a semplificare molto le emozioni, come se fosse seriamente possibile etichettarle con una ventina di faccine gialle. Ma alle società come Affectiva, Facebook, Microsoft, Amazon e Ibm, che hanno prodotti di riconoscimento delle «emozioni», questo poco importa. Non si tratta di andare a fondo nell’animo umano per sondarlo, capirlo e magari curarlo. Si tratta solo di venderci qualcosa. Non è certo un caso se tra gli investitori della prima ora di Affectiva troviamo il gigante della pubblicità Wpp.
In effetti, rispetto agli anni Ottanta e Novanta, quando i primi esperimenti tentavano di individuare i terroristi negli aeroporti, ora siamo nell’epoca delle emozioni dello shopping. Siamo passati dalla teoria alla pratica.
Poco più di un anno fa alla Stazione centrale di Milano una società montò delle telecamere capaci di «giudicare» le nostre reazioni di fronte alle diverse pubblicità. Il Garante della Privacy le fece rimuovere. Ma in diversi negozi delle tecnologie simili sono usate per capire che tipo di cliente siamo: quello che tocca tutto senza comprare nulla (in effetti il peggior cliente) o quello che cerca i consigli giusti per acquistare.
In Europa queste piccole e diffuse «macchine della verità» sono limitate dalla regolamentazione sulla privacy. Ma in posti come la Cina la sperimentazione massiccia è già in corso. D’altra parte il vero Cavallo di Troia di questi Piccoli Fratelli pronti a tradirci vendendo le nostre emozioni resta lo smartphone. La tecnologia di Affectiva può essere usata, per esempio, nelle app. E sappiamo come funziona: quando le scarichiamo accettiamo, più o meno distrattamente, tutto il pacchetto. In effetti l’utilizzo nel campo delle pubblicità è quello più probabile e invasivo. Sullo sfondo rimane l’amarezza di avere perso anche il controllo di questo avamposto: le reazioni emotive, ciò che ci contraddistingue dai mostri e vampiri e dalle macchine senz’anima, sono state fagocitate da intelligenze artificiali e server sotto forma di big data per essere espulse come semplificazioni robotiche, proto-sentimenti dell’homo «amazonicus» creato da Jeff Bezos.
D’altra parte siamo onesti: non siamo stati forse noi ad affidare tutto questo alle macchine consumando una porzione sempre più rilevante della nostra vita sui social network?