Il Sole 24 Ore, 10 marzo 2019
Carte, filigrane e inchiostri: un manuale tipografico
nerox
«L’eleganza del referente». Quando ho trovato questa espressione, che si deve al saggio di Carlo Ossola sulle «Perfezioni del nero», un fantasma mnemonico ungarettiano, ripetuto però e ripreso, per l’evidente significato e aura poetica che contiene, e che Ossola cerca di capire da dove provenga – dai manuali di tintoria del Seicento – il cerchio si è chiuso. Il saggio, poi, è l’ultimo del libro: dopo la omonima poesia ungarettiana, seguirà, appunto, il trionfo tipografico che anche il più profano in materia potrà constatare nella sua “solare” perfezione: una doppia pagina di f minuscole in corpo gigantesco che servono a mostrare ben 26 tonalità di inchiostri neri prodotti in Germania, Italia, Inghilterra e Stati Uniti dagli anni 1930 a oggi. E che sia solare la questione lo certifica il fatto che, oltre che sulla carta in piano, è essenziale vedere questa pagina sotto una luce radente, magari quella che entra dalla finestra dello stesso atelier tipografico di Enrico Tallone ad Alpignano, mentre lui spiega e si appassiona e non finisce mai di rimarcare un particolare, una minuzia: perché quella pagina di “fantasia d’inchiostri” chiude, magnificamente, il suo quarto e ultimo Manuale Tipografico, dedicato, stavolta, «all’arte degli incisori fonditori e stampatori ai fini estetici e alle carte, filigrane e inchiostri». Una serie che non ha eguali a livello mondiale e che serve, sono parole dello stesso Tallone «a onorare il libro nei suoi aspetti materiali e spirituali, descrivendo e mostrando dal vero – nell’epoca dei surrogati virtuali – secoli di civiltà tipografica e cartaria, rivelata dal più efficace antidoto all’ignoranza: l’inchiostro da stampa».
Dunque eccoli questi inchiostri. Il tipografo è un pittore la cui tavolozza è composta di un solo colore e non può permettersi errori o leggerezze; ecco che ciascuna di queste f si veste da gran sera: neri pastosi, o più secchi, taluni con memorie di liquidità passate, la vischiosità che richiede una maggiore o minore quantità di impasto, altri che “riflettono” la luce dalla quale sono toccati, altri ancora, invece restano impenetrabili, muti, tetri, epperò: regali. Più di tutti amo proprio il primo, fabbricato negli anni 30: un Black 288 della Hostmann-Steinberg di Celle, in Germania, che produce inchiostro tuttora con i principi con i quali lo faceva Gutenberg (che l’inchiostro se lo doveva fare da sé, ovviamente, con olio di lino, resine di alberi, nero di carbone), di cui Tallone conserva ancora alcuni preziosi barattoli. Nero di eleganza e potenza sublimi, avvicinato solo, per me, da un nero opaco della Huber di Monaco (anni 90) e da un nero LE H della Etelia di Firenze degli anni 60.
Ritorniamo, allora, all’ “eleganza del referente”. Scrive Ossola: «Non trascurare l’eleganza del referente (...), come se alla parola ci si debba accostare con quella reverentia che si deve a un segno che conserva le tracce del sacro; e il sacro, nei secoli, venerato e temuto, osservato o rammemorato, detta gesti e parole, non sono l’accento di un soggetto ma il lascito di generazioni, l’accumularsi – lento e costante – di un senso condiviso, che faccia convergere verso un “centro riconoscibile” della memoria collettiva». Detto perfettamente, e perfettamente trasponibile all’arte di “fare libri”. I Manuali di Tallone (dedicati anche all’impaginazione, ai caratteri da stampa, ai frontespizi, alle carte, insomma a tutti gli elementi materiali che costituiscono l’ossatura stabile sulle quali le parole si posano e si possono poi “librare”, verbo che consente un bellissimo doppio senso), sono, infatti, la esemplificazione di cosa ha voluto dire per questa singolare impresa familiare, autentica eccellenza del miglior made in Italy, mettersi al servizio dell’oggetto-libro; in tutti i manuali la teoria (e si prendano, anche in questo ultimo, i puntualissimi commenti estetici e tecnici di Enrico, o la dotta ricostruzione storica delle carte d’Alvernia di Luigi Manias, o, ancora, i saggi di Massimo Gatta, Nicolangelo Scianna e Armando Torno) è resa “viva” dagli esempi. Tallone possiede uno straordinario repertorio di punzoni e caratteri, certo, ma anche di carte pregiate, italiane e straniere accumulate in decenni di attività. Così in ogni manuale, gli “inserti” servono a farvi letteralmente toccare con mano di cosa si sta parlando; ed è una gioia che anche ai bibliofili più accaniti non capita spesso di poter provare: i campioni originali di carta che sono qui acclusi, da Pescia a Fabriano agli Stati Uniti sono un’emozione al tatto e consentono belle scoperte.
E, ancora, le filigrane: Tallone ne è un collezionista e conoscitore raffinato e custodisce esemplari delle carte filigranate che servirono a comporre la Bibbia di Gutenberg (che, sia detto per inciso, venivano dal Piemonte, da Caselle; ovviamente queste le tiene per sé). Ogni manuale ne contiene ben tre, di secoli diversi. Per i feticisti veri e propri, poi, Tallone ha inserito un foglio d’avviamento tipografico, che serve a capire come regolarizzare la pressione di stampa sulle diverse zone della pagina e sulle singole lettere.
Del resto, lo stesso libro è un monumento all’arte di fare libri: in-folio (cm 37x23) di 208 pagine composte a mano con i caratteri disegnati da Alberto Tallone, incisi da Charles Malin e fusi da Radiguer a Parigi, mentre le note e le didascalie dei reperti originali (che sono fustellati in cartoncini più spessi) sono composte a mano in Garamond Deberny & Peignot. La complessa redazione e la composizione a mano per mezzo di 360.000 caratteri, ci tiene a fare notare Tallone, «fanno sì che il presente Manuale veda la luce nel 2018, anno in cui ricorrono diversi anniversari: cinquecentocinquant’anni dalla scomparsa di Gutenberg, il bicentenario del Manuale Tipografico di Giambattista Bodoni, centovent’anni dalla nascita di Alberto Tallone, l’ottantesimo dall’inizio dell’attività editoriale a Parigi, il sessantesimo dal rientro in patria, il cinquantesimo della sua scomparsa e il primo anniversario di Bianca Tallone, a cui si deve la continuazione di un ideale anche durante difficili frangenti».
Anche solo questa nota, dove viene ricostruita una genealogia produttiva e di intenti («la continuazione di un ideale») serve a rendere esplicito ciò che si diceva sopra. Si tratta di una lunga tradizione, «l’accumularsi – lento e costante – di un senso condiviso»; che è quello di fare libri onorandoli al meglio, preoccupandosi di ogni singolo aspetto, mettendosi al servizio dell’autore (e, dunque, delle parole), ma esaltando quella tecnica, quel mestiere del far libri, che, senza che noi ce ne accorgiamo, spesso, è uno degli elementi di forza del pensiero, della poesia, delle idee che da quelle parole promanano. È un’alleanza, quella tra il testo e il suo confezionamento, che non va sottovalutata. Un libro è un progetto di architettura e raramente sta in piedi se manca uno degli elementi. Siamo così abituati a effimere produzioni digitali che, quando arriva un solido esempio di cosa ha significato, nell’ultimo secolo, lavorare per l’ “eleganza del referente” non possiamo che restare ammirati. Un libro così, una serie così, dovrebbe stare in tutte le biblioteche pubbliche di un certo nome e nelle scuole di design, di grafica, nei politecnici. È troppo sognare che vada a finire nelle biblioteche dei letterati, ma i bibliofili, quei pochi o molti che restano, non se lo facciano sfuggire.