Il Sole 24 Ore, 10 marzo 2019
La casa del popolo di Mosca, che lusso!
Impacchettato come un’opera di Christo nel bianco della neve moscovita, il Narkomfin – avanguardistica «casa comune» costruita da Moisej Ginzburg e Ignatij Milinis nel 1930 – attende con pazienza la fine dei lavori di restyling del suo corpo malandato. «Hanno già venduto il 50% degli appartamenti» ci dice soddisfatto Alexey Ginzburg, nipote di Moisej e autore del restauro, delicata operazione in equilibrio tra rispetto filologico e necessità commerciali. Dietro ai rendering affissi alle impalcature, che mostrano abitazioni alla moda con parcheggi per Mercedes e BMW, c’è infatti il tentativo di conservare i principi architettonici del più noto esperimento costruttivista sul tema della «Dom-kommuny».
Il Narkomfin nacque quando l’architettura era considerata il motore della rivoluzione e un antidoto alla famiglia tradizionale, vista come ostacolo al socialismo. Abitare in case collettive, condividendo i servizi, avrebbe liberato la donna dalla schiavitù domestica. Si moltiplicarono allora i progetti di falansteri e ostelli, la cui carica utopica si scontrava però con la reale mancanza di alloggi. Per questo si istituì un Comitato per l’edilizia diretto da Moisej Ginzburg (1892-1946), già studente dell’Accademia di Belle Arti di Milano e in contatto con le teorie di Le Corbusier, che purtroppo si infrangevano «contro le barriere del retrogrado ordinamento sociale dell’Europa».
Ginzburg, insieme a Milinis, realizzò il Narkomfin, un parallelepipedo di 5 piani lungo 91 metri destinato ai dipendenti del Commissariato delle Finanze. Speciali erano gli incastri delle cellule abitative, il tetto giardino, le finestre a nastro, gli spazi collettivi ubicati in un volume adiacente (asilo, mensa, lavanderia). Tutti elementi ispirati a Le Corbusier, che farà qualcosa di simile nell’Unité d’habitation di Marsiglia, vent’anni dopo. Fu un edificio-manifesto, osannato dalla critica europea, simbolo di un nuovo modo di vivere; anche se in realtà non era una vera e propria casa comune ma un «alloggio di tipo intermedio», in cui coesistevano l’autosufficienza del singolo appartamento e le parti condivise.
I problemi però cominciarono presto. La «cellula minima» era più che abbondante per gli standard dell’URSS: ciò favorì il sovraffollamento, mentre l’autosufficienza degli appartamenti fece fallire i servizi comuni (la mensa durò ben poco). A peggiorare la situazione contribuì l’avversione di Stalin per l’architettura moderna. E così, col tempo il Narkomfin si guadagnò il soprannome di «Casa del Sonno», ovvero di edificio dormitorio, privo di vita comunitaria, sempre più deteriorato. Come ha analizzato Victor Buchli in An Archaeology of Socialism (2000), il Narkomfin ha registrato – nel rapporto tra individuo e spazio domestico – tutte le trasformazioni politiche dell’URSS, dalla rivoluzione al collasso e oltre.
Fu Vladimir Ginzburg, il padre di Alexey, ad interessarsi al recupero già negli anni Ottanta. (Egli sparì nel nulla nel 1997: qualcuno crede sia stato assassinato dalla mafia del real estate, forse per l’opposizione ad alcuni piani sul Narkomfin.) Nel 2007 l’idea di farne un boutique hotel, bloccata dalla crisi. Infine, pochi anni fa, una società è riuscita ad acquistare l’intero immobile, concedendo la possibilità di studiarlo in vista della rinascita.
Come replicare i dettagli perduti? In che modo conciliare il rispetto con le richieste del mercato? Domande non scontate a Mosca, ci fa notare Jean-Louis Cohen, storico dell’architettura e membro del Comitato che si occupa di un altro capolavoro, la casa-studio di Konstantin Melnikov. «In Russia non c’è una cultura di restauro dell’architettura moderna. In molti casi si preferisce demolire tutto o quasi e ricostruire in maniera simile all’originale, senza rispetto per la cultura materiale». È accaduto per la grande casa comune di Ivan Nikolaev e per l’Autorimessa degli autobus Bakhmetevsky di Melnikov, «esempi in cui al restauro paziente si è preferito il rifare più bello».
La storia del restauro del Narkomfin, ancora in divenire, segna invece un caso pressoché unico, in cui la lunga durata ha comportato una benefica maturazione della consapevolezza critica, grazie allo studio del «corpo nudo» dell’edificio. Secondo Cohen, «è il meglio che si può fare oggi a Mosca». Se non proprio un metodo filologico, c’è uno sforzo di conoscenza. E difatti Alexey Ginzburg sta rendendo omaggio al nonno anche ripubblicando in facsimile i suoi ormai introvabili libri, come Style and Epoch (1924), manifesto dell’architettura costruttivista.
Il cantiere è ancora in alto mare, con pavimenti rotti e intonaci cadenti. La facciata ovest, che fronteggia l’Ambasciata americana, è un colabrodo. Si riesce tuttavia a cogliere la qualità degli spazi, grazie al rispetto dell’impianto originale. Ai futuri inquilini saranno date due opzioni: una neutra, con pareti bianche, e un’altra dipinta sulla base dei colori autentici. Qualcuno ha chiesto la replica della «mitica» cucina originale, ma i più ne vogliono una made in Italy. Già si vedono alcuni degli elementi ricostruiti, come le maniglie delle finestre o la facciata in vetro e acciaio della parte comune (tutto re-made in China). Tra i dettagli spiccano le lunghe fioriere inventate per creare – 80 anni prima del Bosco Verticale – una facciata verde. Ancora incerte sono alcune destinazioni: il volume dei servizi potrebbe diventare caffetteria, spazio per uffici o gallerie d’arte che sfrutterebbero la fama del luogo, pronto a diventare un brand. Si prevede anche un piccolo museo.
Giudicheremo meglio a lavori finiti. Certo è però che questo intervento diverrà un metro per valutare i futuri progetti di riqualificazione del patrimonio moderno russo. I cantieri in città sono molti: dopo il ristorante sovietico nel parco Gorkij convertito da Rem Koolhaas nel «Garage Museum» per l’arte contemporanea, c’è attesa per la performance di Renzo Piano, che sta trasformando in nuovo centro culturale una ex centrale elettrica d’inizio Novecento a due passi dal Cremlino.