Il Sole 24 Ore, 10 marzo 2019
Se il pesce si specchia non si vede
La notizia che una specie di pesci pulitori (Labroides dimidiatus) avrebbe superato il test della macchia circolava già da un po’. I primi risultati erano stati presentati in alcuni congressi internazionali di etologia, e un manoscritto era stato depositato su bioRxiv, un archivio online di articoli in versione preprint, dedicato alle scienze biologiche. Pochi giorni fa, un resoconto in forma completa è stato pubblicato su un’importante rivista scientifica «PLoS Biology».
Il test della macchia è stato ideato dallo psicologo sperimentale Gordon Gallup Jr. negli anni Sessanta. Pare che lo scienziato fosse impegnato a radersi la barba davanti a uno specchio quando gli venne un’idea su come sarebbe possibile verificare se anche gli altri animali si riconoscono nel loro riflesso.
Gallup introdusse uno specchio nelle gabbie degli scimpanzé nel suo laboratorio, osservando che mentre all’inizio gli animali rivolgevano all’immagine riflessa gli usuali comportamenti aggressivi, sociali o sessuali che vengono indirizzati a un altro scimpanzé estraneo, successivamente scoprivano che lo specchio poteva essere usato per esplorare porzioni non visibili dei loro corpi, come ad esempio l’interno della bocca. Per dimostrare che gli scimpanzé avevano imparato a riconoscersi allo specchio, Gallup pitturò sulla cute degli animali una macchia, che non lasciava odore e non era avvertibile al tatto, in una posizione tale per cui non poteva essere veduta se non per il tramite dell’immagine riflessa da uno specchio (ad esempio, la macchia poteva essere collocata sul sopracciglio o sul lobo di un orecchio, invisibile a uno sguardo diretto). I risultati confermarono le attese: gli scimpanzé effettivamente mostravano comportamenti auto-diretti di fronte allo specchio, cercando di rimuovere la macchia.
Negli anni successivi, l’esecuzione del test della macchia su una varietà di altre specie sembrò fornire un quadro generale che ben si adattava all’idea di una scala naturale lineare dell’auto-consapevolezza, con la specie umana troneggiante alla sommità. Infatti superavano il test le grandi scimmie antropomorfe (scimpanzé, gorilla, oranghi...), ma non le scimmie e gli altri animali. Successivamente, però, questa visione un po’ semplicistica è stata messa in discussione.
Un gruppo di ricercatori mostrò che i piccioni potevano imparare a dirigere comportamenti di beccata diretti verso una macchia usando l’immagine riflessa da uno specchio. Era sufficiente addestrarli dapprima a beccare una macchia posizionata in vari luoghi nell’ambiente per ottenere un premio. Successivamente, quando la macchia veniva collocata sul corpo degli animali, in prossimità dello sterno ma resa invisibile dalla presenza di un bavaglino che ne oscurava la visuale, i piccioni imparavano, guardandosi nello specchio, ad allungare e piegare il collo oltrepassando il bavaglino per andare a beccarsi nel posto giusto. L’obiezione che il comportamento degli animali non fosse spontaneo come quello degli scimpanzé poteva essere rintuzzata osservando che gli scimpanzé avevano essi pure avuto ampie opportunità di apprendimento durante la fase di esposizione allo specchio. Che la risposta fosse spontanea o motivata da un premio la natura dell’apprendimento non sembrava fondamentalmente differente.
Gli studi successivi rivelarono inoltre che i delfini, gli elefanti e le gazze sono in grado di superare il test anche in assenza di addestramenti espliciti. Naturalmente questi animali non posseggono la stessa abilità manuale di un primate nel cercare di rimuovere la macchia. Gli elefanti si destreggiano con la proboscide, le gazze usano le zampe o strofinano il petto per terra, mentre i delfini possono solo fare contorsioni nell’acqua per cercare di osservare la macchia.
Delfini, elefanti e corvi godono di una buona reputazione per quel che riguarda le loro capacità intellettuali, perciò l’idea che possano essere iscritti al club esclusivo delle creature consapevoli di sé stesse pare ai più accettabile, e forse anche desiderabile.
Diverso è il caso dei pesci, che sono creature filogeneticamente distanti da noi ancor più di quanto possono esserlo gli uccelli, e il cui sistema nervoso è assai diverso per molti aspetti. Certo può aver contribuito al superamento del test il fatto che questi animali agiscono attivamente come pulitori dei corpi di altri pesci, anche molto più grossi, con i quali stabiliscono relazioni mutualistiche liberandoli da parassiti e non venendo per questa ragione attaccati. È probabile che ciò li renda particolarmente sensibili e attenti alla comparsa di macchie inaspettate sui corpi degli esseri viventi. Nei filmati che accompagnano l’articolo si può vedere come dopo un’ispezione allo specchio il pescetto si fiondi sul substrato ghiaioso del fondale, per strofinarci sopra la gola là dove ha visto comparire la macchia (https://doi.org/10.1371/journal.pbio.3000021.s007).
Appare evidente dall’editoriale che accompagna l’articolo come il processo di valutazione tra pari (peer-review) – che caratterizza le procedure per la pubblicazione nelle riviste scientifiche – sia stato in questo caso assai tormentato. I valutatori si sono divisi nel giudizio positivo e negativo, e alla fine l’articolo è stato accettato per la pubblicazione accompagnato da un commento dell’editore accademico che ha seguito il processo di peer-review, il primatologo Frans de Waal, in cui si cerca di sostenere una prospettiva «gradualista» sull’auto-consapevolezza degli animali: i pesci pulitori sarebbero sì auto-coscienti, ma non proprio come gli scimpanzé o gli esseri umani, un po’ meno...
Confesso di avere un’opinione completamente diversa, e ho molto apprezzato che gli autori dello studio sottolineino la necessità di riconsiderare il test della macchia anziché attribuire auto-consapevolezza ai pesci. Credo infatti che il test della macchia non fornisca alcuna prova che un organismo sia consapevole di sé stesso.
Che cosa impara un animale quando diventa capace di dirigere un’attività motoria verso la macchia (non importa se con una mano, una zampa o un becco) impiegando l’immagine riflessa dallo specchio? È istruttivo osservare cosa fanno i bambini o i piccoli scimpanzé. All’inizio trattano l’immagine come quella di un conspecifico estraneo. Poi sembrano realizzare che quel conspecifico si muove in modo assai strano, riproducendo pari pari le loro stesse mosse, e ne sono incuriositi. A questo punto avviano delle specie di esercizi: iniziano a muovere intenzionalmente e in modo ripetitivo il corpo o una sua parte come ad esempio un arto, monitorando al contempo cosa accade all’immagine riflessa. In questo modo compiono una semplice ma cruciale associazione tra due sorgenti di informazione percettiva. Da una parte, ogni volta che muovono un arto, poniamo sollevano il braccio, il sistema di recettori posto su tendini e articolazioni segnala loro la posizione del braccio (questo sistema sensoriale va sotto il nome di propriocezione: non facciamo caso al suo operare, ma è di importanza fondamentale nelle nostre vite: noi siamo sempre consapevoli della posizione relativa delle varie parti dei nostri corpi). Dall’altra parte c’è l’informazione visiva che viene veicolata dall’immagine riflessa nello specchio. E vi è una precisa corrispondenza tra le due fonti di informazioni sensoriali: ogni volta che l’animale sente propriocettivamente che il suo braccio si muove e raggiunge una certa posizione, percepisce visivamente e in sincronia lo spostamento del braccio che sta osservando. In questo modo l’animale può realizzare che quello è il suo braccio, non quello di un altro individuo. Tutto qua. Puro e semplice apprendimento associativo.
La facilità o la difficoltà che animali di specie diversa possono incontrare nel formare l’associazione ha poco a che spartire con l’essere auto-coscienti. Ad esempio, se un animale rifiuta di guardare la sua immagine riflessa dallo specchio, come fanno molte specie di scimmie, perché guardare direttamente un conspecifico è un atteggiamento aggressivo, non avrà alcuna opportunità di apprendere l’associazione visuo-propriocettiva. E, infatti, si è potuto osservare che se le scimmie vengono addestrate a coordinare la percezione visiva di una macchia luminosa che si sposta in diverse posizioni sul corpo con il movimento che deve fare una zampa nel tentativo di raggiungerla, sono in grado di imparare l’associazione e poi superare il test. Insomma, sul test dello specchio, così come in tante delle attuali discussioni sulla coscienza nelle specie non umane, molto rumore per nulla.