il Fatto Quotidiano, 10 marzo 2019
Biografia di Chef Rubio raccontata da lui stesso
“Ho parcheggiato bene?” Qual è la macchina? “La Punto prugna, era di mia nonna”. Bel colore. “È del 1994, perfetta, e poi per me è solo un mezzo di trasporto. Prendo la multa?”. No, lì va bene. “Tutto questo caos è insopportabile”. Meglio andare a tavola. “Decisamente. Ah, non tocco il vino, non posso e da tempo”. Che è successo? “Già a 12 anni andavo in fraschetta con gli amici, da allora ho mangiato e bevuto troppo, senza regole. Magari tornavo da un allenamento di rugby e mi sparavo dodici supplì per tamponare l’appetito”. Vuoi per lavoro, vuoi per indole, a guardarlo non è difficile crederlo: Gabriele Rubini, in arte Chef Rubio, è un ragazzone di 35 anni di quasi un metro e novanta per 112 chilogrammi (“ora sto meglio, mi sono sgonfiato, ne ho persi sette…”), ex rugbista con più ossa spezzate che trofei vinti (“mi sono rotto tutto meno l’osso del collo”), un’esperienza non breve in Nuova Zelanda, quindi una passione per i fornelli, tanto da diventare uno degli chef televisivi più amati dal pubblico.
A differenza di altri colleghi celebri, veste in maglietta, mantiene l’accento romano, la parolaccia lo accompagna, è tutto tatuato, quando è possibile affonda le mani nel piatto, a tavola mantiene un ritmo costante, prolungato ed efficace (con lui occhio al proprio piatto), non ha filtri rispetto alle mode culinarie (“oramai se non utilizzi lo zenzero non sei nessuno”) e non teme polemiche con i vegetariani e gli chef stellati.
Da questa sera (ore 21.25 sul Nove) è protagonista della terza serie di Camionisti in trattoria, programma diventato cult, un viaggio tra i posti più sperduti (e spesso) economici d’Italia e d’Europa, “guidato” da chi percorre migliaia di chilometri su gomma, “e uno si rende conto che è possibile mangiare benissimo, anzi da paura, pure con quindici euro”.
Sorride di rado, quando capita utilizza più gli occhi della bocca.
Sui camion in giro per il Continente.
E ho scoperto persone molto differenti rispetto all’immaginario collettivo, gente che legge, si informa, meno scorbutici del previsto, alcuni con un desiderio unico di parlare.
Davanti alla telecamera, si sciolgono.
È la legge di Andy Warhol, alla fine ci cadono tutti per ottenere quei benedetti quindici minuti di celebrità. (Arrivano le prime portate, esce il cuoco, un po’ intimidito, a salutare).
Mette ansia ai colleghi.
Colpa della televisione, dei messaggi che trasmette, di questa voglia di alcuni chef di stare su un piedistallo a giudicare. Non lo sopporto. Quando sono a tavola non spulcio mai nel piatto.
Sulla tv Vissani esprime dei concetti simili.
Rispetto a quell’uomo non nutro un briciolo di stima.
Niente.
Zero, non mi piacciono molti dei suoi atteggiamenti e su di lui non voglio dire altro.
Prima abitudine al risveglio.
Accendo la televisione, mi sintonizzo sui programmi d’informazione e nel frattempo leggo i giornali.
Quali.
Sono sette, ovviamente c’è il Fatto.
Secchione.
Io? Ma se i primi anni di scuola studiavo pochissimo, giocavo quasi solo a rugby, poi a casa mi dedicavo ai Manga giapponesi (fumetti).
Ha dichiarato di essere stato bullizzato.
Sì, ma niente di particolarmente grave: avevo e ho sessantaquattro centimetri di circonferenza cranica, quindi al tempo ero solo testa e poco fisico, i ragazzi mi urlavano “capoccione”; alla fine non ne soffrivo, mi rifugiavo nell’indifferenza.
Come mai la Nuova Zelanda?
Un insieme di fattori, mi ero stufato un po’ in generale, in particolare dell’università: ero iscritto a Giurisprudenza ma senza dare nemmeno un esame.
Non studiava?
Quello sì, ma quando mi chiamavano non mi alzavo, non mi piaceva quella liturgia, con tutti appresso ai voleri del professore, ai suoi capricci: magari non si presentava, stoppava all’improvviso gli esami, rimandava. Non ne potevo più. Così per affinità rugbistiche, e non solo, sono partito per la Nuova Zelanda.
I suoi genitori?
Pensavano tornassi dopo due settimane. Comunque mi hanno dato un’educazione rigida…
Quanto?
A letto alle 21.30, anche da grande non potevo tornare dopo mezzanotte, niente motorino, niente cellulare, e quando ne ho avuto uno era un modello da Medioevo.
Giusto?
Li ringrazio.
Il mondo delle star…
Estremamente debole, falso, grottesco, eppure a tutti va bene così, si finge la letizia, il benessere, si cerca di piallare le differenze per mantenere l’equilibrio precostituito. E sì, ancora molti pippano.
Senza appello.
Per fortuna li frequento poco, e non vado quasi mai negli studi, registro in esterna. (È alla quinta portata, con una capacità rara di nutrirsi e parlare).
Buon appetito.
Ho mangiato di tutto e in tutto il mondo, mi sono sfondato, credo di aver ingerito 100 volte quello che un uomo normale consuma nell’intera vita.
Esagerato.
Mica tanto.
Il cane lo ha assaggiato?
Sì, e a volte ricorda il montone, in altre il manzo, comunque è dolciastro…
E poi?
In Islanda e Giappone ho assaggiato la balena.
Ci sono varie campagne a protezione.
Ed è sbagliato: quasi tutti pescano esemplari non in via d’estinzione; in Islanda è proibito andare oltre il numero prefissato, e mai balene incinte.
Greenpeace non la pensa proprio così.
Sono contro la caccia non indispensabile.
Tradotto?
In Groenlandia è fondamentale per le tribù povere dedicarsi alle foche, per loro sono una fonte indispensabile di sopravvivenza; il problema è che sono arrivati i ricchi canadesi o gli statunitensi ad accaparrarsi le pellicce. E non va bene.
Da bambino era già chiara la sua passione?
Sono cresciuto leggendo Airone o National Geographic, e l’obiettivo era quello di diventare veterinario o biologo marino.
Secondo i suoi colleghi è più sano mangiare al ristorante che a casa.
Ma andassero a quel paese: mangiare fuori fotte le persone, lo dicono solo per fare cassa, peccato che la gente ci crede.
Sempre.
Ma no, molti esercizi sono migliorati, il palato del pubblico è cambiato, poi ci sono i clienti che scimmiottano le espressioni sentite nei vari programmi televisivi e allora parlano di “croccante” o “acidità”, o altre formule ridicole.
Non ha ancora aperto un suo ristorante.
Per ora non ci penso proprio, ma nel caso dovrà essere un’osteria con pochi posti, dove cucino per me e poi abbondo per offrirlo agli altri.
Deciso.
Se poi non ti piace, arrivederci.
Programmi di cucina.
Trovo sia da coglioni andare in televisione per gareggiare sul cibo, e non sopporto questa retorica secondo la quale esci migliore da quell’esperienza.
Almeno migliorato.
No, solo più appetibile per alcune logiche di mercato.
È stato mai contattato?
Sei anni fa e avevo posto delle condizioni su ciò che avrei voluto dire.
Questioni economiche?
Macché, sul quel piano sono pessimo, è andata male per tantissimo tempo; se fossi stato un po’ più sveglio, altro che Punto del 1994.
Come impiega i soldi?
Viaggi, alcune donazioni, cibo, gli amici, e niente più; se sei un malandrino puoi mettere i soldi da parte, se stai alle regole non resta quasi nulla; per fortuna non ho vizi.
Fortuna.
Per diventare ricchi è necessario provare piacere nell’accumulo, poi devi essere capace e costante, magari organizzare degli show cooking; in realtà mi rompo subito le palle, e quelle situazioni mi sembrano pure ridicole; i soldi proprio non mi interessano.
Il suo pasto preferito.
Basta pane, salame e formaggio.
Come si giudica da chef?
So il fatto mio.
Punto forte.
Riesco a cucinare con quello che trovo, amo gli avanzi, non sono mai stato uno in punta di mestolo in cerca della dispensa piena per poi proporre piatti frivoli.
Oramai il gioco è quello degli accostamenti folli, spacciati per buoni.
Senza senso, e almeno anni fa c’era la curiosità per la novità, la nobilitazione del cibo, ma visti i tempi miseri, certe idee di cucina diventano quasi offensive: non siamo più nell’edonismo degli anni Ottanta.
Per ottenere una Stella Michelin è necessario rispettare delle regole.
A 360 gradi, ma è solo un riconoscimento per un certo tipo di persone, per dei circoli viziosi d’interesse, un po’ come gli Oscar del cinema.
Impietoso.
Di frequente trionfa chi è più potente o fa squadra: ho provato degli stellati veramente mediocri, gente ossessionata, dei fuori di testa, ma perfetti nell’apparenza, nella cantina, e prendono i prodotti dalle persone giuste…
Timido?
Lo ero e lo sono rimasto.
E davanti alla telecamera?
A mio agio, tanto non mi chiedono altro che essere me stesso, insomma ci sono cascati, in caso contrario non sarei in grado.
Una falsità in cucina.
Il pistacchio di Bronte: ci siete mai stati lì? È un buco di paese, come può soddisfare le esigenze di tutto il mondo? C’è una qualità turca, e altre del Medioriente, che sono stupende, ma tutti appresso a quella leggenda di Bronte.
Il limoncello di Sorrento.
I presunti liquori del dopocena non hanno mai aiutato nessuno a digerire, sono solo una botta di zuccheri perfetti per il mal di testa.
Chi non potrà mai essere?
Uno che appartiene a una lobby, i gruppetti non li reggo.
Vota?
Mai in vita mia, non mi faccio rappresentare da chi non conosco.
Il Made in Italy.
Altra bufala, non può significare per forza “buono” o “di qualità”: siamo invasi dai rifiuti tossici, e parliamo? E non mi riferisco solo alla Campania: ci sono tante, troppe, zone del Paese in cui è consigliabile non toccare i prodotti della terra.
Farinetti ci ha costruito un impero.
E infatti non lo sopporto, quando posso lo attacco, ma è talmente potente da restare intoccabile.
È considerato un sex symbol.
Ne farei volentieri a meno, sono solo rogne.
Esagerato.
La fama può diventare uno stimolo per le follie degli stalker.
Ne ha?
Lo zoccolo duro è composto da cinque donne, oramai rompono da così tanto tempo da conoscerle alla perfezione. Il problema è che io reggo, chi prova a starmi vicino non capisce fino in fondo certe dinamiche.
Spesso attacca Salvini: cosa gli cucinerebbe?
Posso evitare la risposta? Su di lui sarei veramente truce, e siamo pur sempre a tavola… (e addenta l’ottava portata).