il Giornale, 9 marzo 2019
La borghesia dell’Italia che non c’è più
Laura Laurenzi, spesso definita banalmente come una «impareggiabile giornalista di moda» e narratrice di teste coronate e alti lignaggi, ha scritto molti libri belli e importanti ma soltanto adesso si è liberata di un peso antico mostrandosi per quel che era ed è, giornalismo a parte: una scrittrice senza altri correttivi. E lo ha fatto venendo meno alla prima regola del suo pudore, quella di non scrivere mai di sé. Lo ha fatto con coraggio quasi sventato, sistemando nella sua anima (e nella storia anche di tutti noi) una madre americana, amata al punto di non poterne parlare per mezzo secolo dopo la sua morte. Oggi l’ha fatto pubblicando il volume La madre americana, edito da Solferino (pagg. 260, euro 18) che non è soltanto un memoir e una grande storia femminile, ma è la soluzione di un puzzle. I lettori lo leggeranno, come ogni libro, dalla prima all’ultima pagina in senso orizzontale. Ma per me e per chi conosce Laura da molti anni l’emozione e la sorpresa hanno viceversa una intensità verticale, concentrata su un punto.
Laura ed io abbiamo passato insieme gli anni Ottanta, partendo dalle rovine del terremoto dell’Irpinia, fra bare e madri piangenti, odori insostenibili e arrampicate sulle macerie con la terra che tremava quando scrivevamo esausti, lei ancora per Il Giorno e io per Repubblica. Suo padre era Carlo Laurenzi, una colonna portante della cultura del Giornale, uscito dal Corriere con Indro Montanelli e la migliore argenteria di via Solferino. Carlo era il più temuto, elegante e colto critico cinematografico e letterario, un elbano dal temperamento scostante che Montanelli chiamava Jaegermeister, l’amarissimo che fa benissimo. Diventammo tutti profondamente amici anche con il fratello Martino e furono gli anni felici della mia educazione letteraria, politica, umoristica, legata ai tempi dell’immediato dopoguerra. E sentimentale, naturalmente. Carlo Laurenzi veniva dal Partito d’Azione, antifascista per buon gusto ma radicalmente anticomunista e per decenni erano di casa tutti gli uomini e le donne della cultura e del giornalismo italiano. O meglio: erano stati di casa negli anni dell’infanzia di Laura, sia per la professione del padre grande inviato non soltanto culturale del Corriere, sia per la madre americana che lo aveva sposato nel 1947 e che guidava il Foster Parents Plan, una pendice del Piano Marshall che assicurò istruzione, cibo e medicine a 11.385 piccoli orfani italiani che lei andava a cercare uno per uno su e giù per l’Italia. Era figlia di romagnoli, ma americana fino al fondo dell’anima e odiava la parola «americanate». Possedeva quella forma di rispetto candido e per noi italiani quasi imbarazzante, che hanno gli americani per tutto ciò che appare buono, giusto e per cui vale la pena battersi. Il mio legame con i Laurenzi (la madre americana era già morta da tempo) cambiò il mio modo di parlare e di pensare, Laura cancellò con cura e per sempre ogni mia traccia di accento romano anche se si divertiva a farmi recitare La scoperta dell’America di Pascarella.
Ma della madre non si parlava mai. Si accennava al fatto che era stata una donna eccezionale e generosa, buona e determinata, naturalmente elegante e dominata da una volontà di ferro, una che non portava gioielli, organizzava grandi incontri fra grandi persone importanti e influenti per raccogliere fondi con cui prestare soccorso ai bambini e alla cultura italiana stessa. Laura ne ereditò la forma del carattere citando spesso l’espressione attribuita a Disraeli: «Never complain, never explain», mai lamentarsi, mai dare spiegazioni, che era un po’ il motto di casa.
Questa madre Elma, già allieva di Prezzolini alla Columbia University di New York, morì quasi improvvisamente di cancro quando Laura aveva soltanto 17 anni, lasciandola fino ad oggi muta e mutilata di quella parte di sé che era scomparsa: la madre che non c’era più e che era arrivata a Roma con l’uniforme di maggiore degli Stati Uniti per innamorarsi di un giornalista elbano bello come Henry Fonda, coltissimo, altero ed elegante in ogni senso, uno che medicava l’angoscia del vivere educando i figli al nonsenso e al paradosso: disse al primogenito Martino di averlo recuperato da una gabbia di scimpanzé e a Laura di averla trovata in un uovo di Pasqua andato a male. Scriveva soltanto con la stilografica. Ogni volta che nel corso di un decennio cercai di sapere di più sulla madre americana avvertivo la voglia di cambiare discorso. Poi sono passati decenni, abbiamo avuto altre vite che hanno inaugurato nuove generazioni, ci siamo a lungo persi di vista finché l’estate scorsa mentre ero a Favignana con due mie figlie, Laura mi inviò le bozze di questo libro. Per alcuni giorni riallacciammo un dialogo affollato di sms da cui recuperammo il legame della storia. Oggi esce questo volume che non ha l’uguale nella memorialistica perché Laura Laurenzi racconta la storia della famiglia e del mondo politico, culturale e artistico che ruotava intorno ai suoi genitori, ma lo fa con gli occhi di una bambina intelligente e stupita che non capiva ancora di che cosa si trattasse. Questo punto di vista lo rende unico, scritto con quello stile limpido e misurato con cui da sempre scrive, stavolta mantenendo il punto di osservazione di una bambina che non si rende conto di chi e che cosa gira per casa, spedita a letto prima che arrivino gli ospiti, che vede i genitori sparire e tornare, educata a fare l’inchino alle signore rispondendo in inglese e in italiano agli augusti ospiti adulti.
Così, le passa sotto gli occhi tutto il mondo che aveva allora da dire qualcosa: da Pasolini a Bassani a Cassola fino al famoso incontro con Gary Cooper, e quello ravvicinato con John Fitzgerald Kennedy poco prima dell’attentato di Dallas. E poi Carlo Levi (che dipinse un quadro cupo e magnifico della madre), ma quando una illuminata professoressa suora le fa finalmente capire la poesia di Montale e proprio Montale capita la sera a cena, ottiene il privilegio della dedica, che corre a leggere in camera per trovare solo tre sole parole sciatte e distratte: «A Laura, Montale». Giustamente è stato sottolineato che Laurenzi è una grande giornalista e infatti anche in queste memorie familiari le sfugge en passant il reportage su un mondo, un’epoca, i vizi di una Roma che corre alle abboffate dei banchetti, l’aria, i sogni, i pregiudizi, le eleganze, le intelligenze oggi scomparse. Per sciogliere il nodo dopo mezzo secolo ha dovuto diventare insolitamente temeraria e affondare mente e mani nella memoria profonda per ricomporre finalmente e mostrare al pubblico un legame troncato senza soluzione. Ha così restituito un ritratto dell’Italia intera, altrimenti svanito negli odori e nelle grigie pellicole di allora e lo ha fatto in una fase apicale della sua vita, rivelando la sua natura di una ex bambina spartana. Ne esce un testo senza fronzoli, spoglio di ogni presunzione avendo Laura Laurenzi sempre amato «scrivere stretto», buona regola per giornalisti e letterati.