Tuttolibri, 9 marzo 2019
Una «dichiarazione autografa» di Charles Bukowski
Nato il 16/8/1920, Andernach, Germania. Portato in America all’età di 2 anni. E per gli psichiatri dilettanti che si chiedono cosa mi fa gridare nelle mie poesie: quando ero piccolo il mio vecchio mi comprò un costume da pellerossa con il copricapo di penne quando si rese conto che tutti i bambini del vicinato erano vestiti da cowboy. Devo un sacco di cose al mio vecchio, ma dopo che è morto non mi sono più preso la briga di tenerne il conto.
… Los Angeles City College, giornalismo e arte, ma il momento in cui sono stato più vicino all’essere cronista fu quando ero garzone nella stanza di composizione al New Orleans Item. Mi riempivo di birre da cinque centesimi in un bar lì dietro e le notti passavano in fretta.
… Cominciato a scrivere racconti in posti come Atlanta vicino al ponte, in catapecchie di cartone, senza luce, senza acqua, senza riscaldamento, panini al burro di arachidi o barrette di cioccolato… o come New Orleans o il vecchio ammuffito Village, o Philly, Miami Beach, cazzo, Carolina del Nord, Frisco, Houston, di’ tu una città…
… Spedito per posta aerea racconti all’Atlantic Monthly e se non li accettavano, li stracciavo. Alla fine ho sentito da qualche parte della rivista Story e Whit Burnett mi ha pubblicato il primo. Apparso su una rivista internazionale, un affare che costava dieci verdoni, insieme a Sartre, Lorca, tutti quanti, poi ho detto ’fanculo a tutto e mi sono ubriacato per dieci anni.
… Andato a ritirare panini per gli avventori. Me le facevo suonare dal barista… quando mi girava. A volte lavoravo: fabbrica di biscotti per cani, addetto al cocco in una fabbrica di torte, operaio all’imballaggio, camionista, magazziniere da Sears-Roebuck, postino, addetto alle pulizie, guardiano notturno, manovale al porto, giocatore di sistemi integrali all’ippodromo più vicino a te, attacchino di manifesti nelle metropolitane di New York, dio, non riesco a ricordarmeli tutti; e nemmeno lo voglio. All’età di 35 anni mi sono seduto di nuovo davanti a una macchina da scrivere e mi usciva tutto sottoforma di poesia. Almeno, per me lo era.
… Ma ho scoperto che gli editori volevano ingabbiare ogni cosa. Era come dover timbrare il cartellino o riuscire a spremere al barista un bicchiere gratis. Vai al succo, dicevano. Sei immerso nella placenta. Ma ho capito che l’unica cosa che volevano era monotonia e scimmiottatura poetica.
… Frequentato corso di poesia che non dimenticherò mai, non importa quanta merda mi gettino addosso. Una vera e propria sepoltura, amico, non zampilli di critica che fendono un orizzonte verbale.
… Be’, ho detto quasi tutto, e in realtà non c’è nulla da dire, il fatto è che la poesia o dice già tutto da sé o non lo dice. Non ho niente contro i ragazzi che sono arrivati alla torre d’avorio e tengono corsi di poesia. È un modo di mangiare e un modo di parlare ma non penso che riuscirei a farlo.
… Se ho un dio è Robinson Jeffers, anche se so bene che non scrivo come lui.
… Sposato a Barbara Fry, direttrice di Harlequin. Non mi poteva soffrire. Divorziato.
… Che altro vuoi sapere…?