Corriere della Sera, 9 marzo 2019
Intervista a Marcello Pezzetti
di STEFANO LORENZETTO
Ha soggiornato nel campo di sterminio di Auschwitz più di 250 volte, spesso per mesi, e ci torna di continuo. Ha recuperato la prima camera a gas di Birkenau: sopra ci viveva una famiglia di contadini polacchi che ignorava di coltivare il giardino sulle fosse comuni. «In passato dormivo nella Kommandantur di Rudolf Höss, l’artefice delle “docce” e dei forni, impiccato nel 1947 accanto al crematorio». E non aveva gli incubi? «No, solo un senso di rivincita». Marcello Pezzetti, direttore del nascente Museo della Shoah di Roma, è il più importante storico dell’Olocausto italiano, l’unico ad aver intervistato tutti i 105 ebrei tornati dai lager. Adesso con la compagna tedesca Sara Berger, pure lei studiosa di storia, ha ritrovato un fondo nascosto alla Farnesina. Si tratta di documenti della diplomazia italiana, redatti dal 1938 al 1943, relativi alle persecuzioni razziali. Appunti per il Duce, telegrammi e note riservatissime, oggi riprodotti nel saggio Solo il dovere oltre il dovere (Gangemi editore). Da essi si evince che nelle ambasciate e nei consolati, così come a Palazzo Venezia e a Palazzo Chigi, all’epoca sede del ministero degli Esteri, tutti sapevano tutto dell’«Endlösung der Judenfrage», la «soluzione finale della questione ebraica». Per esempio, Roberto Venturini, console a Skopje, nel telespresso 417/92 del 16 marzo 1943 descrive la sorte di 5.000 deportati dei quali «si può ben dire che hanno ormai solo gli occhi per piangere», in balia di guardie che «adoperano sotto ogni pretesto con sadica energia le fruste delle quali sono munite».
Coraggioso, il console Venturini.
«Sì. Egli annota che “l’eliminazione degli israeliti dalla Macedonia sarebbe stata chiesta dalla Germania per ragioni militari” e denuncia “il più assoluto disprezzo di ogni più elementare principio umanitario”. Grazie a Venturini ho ricostruito la storia di Susanna Pardo».
Chi era?
«Un’italiana andata a vivere a Bitolj con il marito Davide, un ebreo jugoslavo. Aimée Pardo, residente a Milano, al numero 1 di corso Vercelli, scrisse al console per avere notizie della sorella e della nipote Esperance, di appena un anno. Ora so che sono le uniche due connazionali uccise a Treblinka. Nessun altro portato via dall’Italia sparì in quel campo».
Ha potuto comunicarlo a qualcuno?
«A Silvana, un’altra sorella di Susanna, che ho rintracciato a Milano. Mi ha dato le loro fotografie e le ultime lettere».
Affondare le mani in questa tragedia infinita non le toglie la voglia di vivere?
«Al contrario, me la rafforza. I superstiti mi hanno insegnato che alla morte di massa si risponde in un solo modo: con la vita, godendola il più possibile. Vuole una prova? A 61 anni sono diventato padre di Samuel. Ne ha appena compiuti 4. L’altra mia figlia, Vanina, che ne ha 46 e lavora per l’Onu a Tel Aviv, da piccola veniva con me ad Auschwitz. Pagavo una babysitter perché la facesse giocare con la slitta sulla neve e io intanto cercavo le prove dello sterminio. Non ha idea di quanti documenti ho nascosto nelle sue mutandine».
Nelle mutandine?
«Nei Paesi dell’Est vige tuttora una regola: non puoi portare fuori niente che sia antecedente al 1945. Ho subìto una decina di arresti fra Polonia, Germania Est, Cecoslovacchia e Urss. Una volta insieme con Shlomo Venezia e sua moglie Marika. Lui era fra gli ultimi Sonderkommando di Auschwitz-Birkenau, quasi tutti eliminati dalle Ss. Aveva il compito di estrarre dalle camere a gas le salme degli ebrei eliminati con lo Zyklon B».
Conobbi i Venezia. Due giganti.
«Shlomo mi manca tantissimo. Ci arrestarono in Polonia perché aveva comprato un vecchio yad, il puntatore a forma di manina per leggere la Torah».
Credevo che i comunisti fossero amici degli ebrei.
(Ride). «Non credo proprio. Un tempo sembravano una garanzia contro il ritorno dell’antisemitismo. Poi sono cadute le illusioni. Inoltre il bolscevismo è stato, con il capitalismo, un capo d’imputazione perfetto per altre persecuzioni».
Lo storico David Irving sostiene che le camere a gas sono un’invenzione.
«Deliri di un negazionista pluricondannato. Ho trovato i progetti della Topf und Söhne di Erfurt, l’azienda che costruì gli impianti di ventilazione per aerare le camere a gas dopo ogni strage. Con i disegni degli ingegneri Kurt Prüfer e Karl Schultze, le planimetrie, le foto. Documenti in cui si parla di “Gaskammer”».
Che cosa avrebbe potuto fare Pio XII, e invece non fece, per fermare la Shoah?
«Scomunicare il nazismo».
Liliana Segre mi ha detto: «Poteva mettersi davanti al convoglio di 18 carri bestiame che nel 1943 tradusse ad Auschwitz i 1.024 ebrei catturati nel ghetto di Roma, compresi più di 200 bambini».
«Non ci si può aspettare questo da un papa. Sono gesti coraggiosi da film».
Perché nel 1944 il gran rabbino di Gerusalemme, Isaac Herzog, dichiarò: «Il popolo d’Israele non dimenticherà mai ciò che Pio XII e i suoi illustri delegati stanno facendo per i nostri sventurati fratelli e sorelle nell’ora più tragica»?
«Perché era vero, anche se ufficialmente il Pontefice taceva. Ho intervistato suor Emerenziana, 94 anni, che quel 16 ottobre 1943 nella Capitale spalancò agli ebrei le porte dell’istituto San Giuseppe di Chambéry. “Non avevamo indicazioni su che cosa fare, ma erano in pericolo”, mi ha detto. Fu così che salvò l’undicenne Lia Levi, futura scrittrice».
La «notte dei cristalli» è del 1938, eppure ho visto l’elenco telefonico di Berlino del 1941, con tanto di svastica in copertina. Accanto ai numeri di Partito nazional-socialista, ministeri, Ss, Gestapo, Wehrmacht e Luftwaffe, vi è una sezione Judische con sinagoghe, scuole e ospedali ebraici. Com’è possibile?
«Sa qual è la città tedesca in cui si è nascosto e salvato il maggior numero di israeliti? Berlino. Fino alla Conferenza di Wannsee del gennaio 1942, che varò la “soluzione finale”, non si sapeva che fare dei Mischlinge, quelli di sangue misto. Non tutti i tedeschi erano d’accordo sulla loro soppressione. Friedrich Bosshammer, l’unico nazista condannato per aver fatto finire ad Auschwitz la maggior parte degli ebrei italiani, ebbe l’ergastolo solo per aver agito di propria iniziativa nella deportazione dei misti».
Lei fu consulente per «La vita è bella».
«Mi cercò Roberto Benigni. Gli spiegai la Shoah e portai i sopravvissuti sul set».
Ma si può ridere della Shoah?
«No. Ma si può ridere “nella” Shoah. Come dimostrò Romeo Salmonì, da cui Benigni trasse lo spunto. Fu la sua autoironia a salvarlo dallo sterminio».
Ha collaborato anche a «Rua Alguem, 5555», uscito con il titolo «My father».
«Charlton Heston si fece vivo con il regista Egidio Eronico per avere la parte di Josef Mengele, il Dottor Morte di Auschwitz. Il film è imperniato sull’unico figlio, che va a trovarlo a Manaus, in Amazzonia, per la prima volta. Ho potuto conoscerlo. È un caso umano. Si chiama Rolf Mengele, vive in un paesino sul confine franco-tedesco, fra Strasburgo e Stoccarda. Suo padre era ossessionato dalle ricerche sui gemelli. Li uccideva in coppia con iniezioni di fenolo al cuore per comparare le reazioni mentre morivano. Conosco bene le due sorelle Bucci, scampate a quei folli esperimenti. Dopo la guerra, la moglie di Mengele visse a Merano. Lui riparò in Sudamerica con la cognata. Simon Wiesenthal, il cacciatore di criminali che in Argentina fece catturare Adolf Eichmann, poi impiccato in Israele, mi rivelò che in due occasioni mancò per un soffio di acciuffare Mengele, la prima volta in un albergo di Milano, la seconda in Alto Adige».
Come mai per tanto tempo i superstiti della Shoah hanno taciuto?
«Le ragioni sono più d’una. Perché si sentivano in colpa per essere ancora vivi. Perché credevano che la società non volesse saperne. Perché pensavano di aver delegato la testimonianza a Primo Levi, che però non era mai stato a Birkenau. Perché desideravano proteggere i figli da un dolore immane. Ma non fecero il loro bene, tutt’altro. Lo hanno capito solo negli anni Novanta, con i nipoti. Purtroppo a quel punto è saltata sul carro una marea di gente che ha trasformato la memoria in una professione».
Un sospetto che potrebbe riguardarla.
«Dice? Quando nel 1997, con il regista Ruggero Gabbai e Liliana Picciotto, riportai i sopravvissuti in visita ad Auschwitz, per girare il film Memoria, non avevo una lira. Una signora facoltosa mi chiese: “Le manca qualcosa?”. Sì, i 35 milioni per pagare il viaggio, risposi. L’indomani me li portò. La prima volta che intervistai Shlomo Venezia, l’operatore e la telecamera me li prestò la vaticanista del Tg5, Marina Ricci Buttiglione, sorella di Rocco, l’ex ministro».
Sono finiti sumeri, accadi, babilonesi, hittiti, assiri, egizi, fenici, persiani. Gli israeliti sono l’unico popolo dell’antichità giunto fino a noi. Come si spiega?
«Si spiega così: hanno conservato la loro identità nel corso dei secoli. Si sono integrati senza mai farsi assimilare».
È giusto indagare per diffamazione e odio razziale Elio Lannutti, senatore del M5S, che ha citato i Protocolli dei Savi di Sion per denunciare che la finanza mondiale sarebbe controllata dagli ebrei?
«Mi fa pena. Misura lo stato di salute della società. È un termometro. Vuol dire che l’Italia non sta bene, ha la febbre».
Teme il ritorno dell’antisemitismo?
«L’antisemitismo non finirà mai. È un fiume carsico. Non lo vedi, ma sotto c’è».
Non vorrebbe fuggire da Auschwitz?
«Quando mi chiedono perché ci sono entrato, non capisco la domanda. Non puoi non entrarci. E non puoi uscirne».
(Corriere della Sera, 9 marzo 2019)