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 2019  marzo 09 Sabato calendario

La mia vita a caccia di tutti i Vermeer del mondo

Le liste delle cose da fare prima di morire spesso hanno a che fare con i viaggi: visitare Petra o Angkor Wat, partecipare all’Oktoberfest o al Carnevale di Venezia. Oppure imprese fisiche temerarie; conquistare la cima di una montagna, correre una maratona. È raro che ci sia di mezzo l’arte. Quando avevo vent’anni non avevo in testa questo concetto delle cose da fare prima di morire, però mi fissai un obbiettivo: vedere dal vivo tutti i dipinti del pittore olandese del Seicento Johannes Vermeer.

Nell’autunno dell’anno precedente, il 1981, avevo visto per la prima volta un poster della Ragazza con l’orecchino di perla nell’appartamento di mia sorella. Mi innamorai di quella fanciulla adorabile con il suo turbante blu e giallo, gli occhi grandi e quell’espressione enigmatica, e me ne comprai uno a mia volta, che ancora possiedo. Non sapevo nulla di Vermeer e decisi di cercare più informazioni su lui e sulle sue opere. Scoprii che c’era poco da cercare. Vermeer visse tutta la vita a Delft, una cittadina subito a sud dell’Aja. Lavorava come artista, commerciava in dipinti, sposò una donna cattolica, ebbe 11 figli che arrivarono all’età adulta, era spesso indebitato e morì, probabilmente per un attacco cardiaco o un ictus, nel 1675, all’età di 43 anni. Non abbiamo nessuna lettera scritta o ricevuta da lui, nessun altro scritto, addirittura nessun disegno.
Soltanto 35 dipinti suoi, più altri due di cui non siamo certi. Ma che dipinti! Nella maggior parte dei casi ritraggono persone singole, spesso donne, distanti da noi, intente a eseguire attività domestiche come versare del latte, scrivere una lettera, infilarsi una collana, suonare un liuto. Sono meravigliosamente illuminati e sono caratterizzati da una quiete e una trascendenza che ci fa venire voglia di arrampicarci dentro il quadro per sperimentare anche noi quella sensazione. Nella National Gallery di Washington, la mia città, c’erano tre Vermeer (e un quarto "prudentemente attribuito" a lui).
Nel 1982 andai in Gran Bretagna per un soggiorno di studio di quattro mesi e vidi due Vermeer alla National Gallery di Londra. Durante una visita al Rijksmuseum di Amsterdam, posai gli occhi su altri quattro. Fu allora che trasformai il mio interesse naturale in una sfida per vedere tutte le sue opere. In confronto alle centinaia di Rembrandt o alle migliaia di Picasso, 37 dipinti mi sembrava un obiettivo realizzabile. All’inizio non facevo viaggi specificamente mirati a quello scopo, ma facevo in modo di scovare un Vermeer ogni volta che visitavo una città.
Dublino: fatto. Edimburgo: fatto. Parigi: fatto. New York, dove nel raggio di un chilometro e mezzo se ne possono vedere otto, tre alla Frick Collection e cinque al Metropolitan Museum of Art: fatto! Diventai una Vermeer spotter. Alcune visite sono state particolarmente memorabili. Al Kunsthistorisches Museum di Vienna ho trascorso un pomeriggio beato, sola insieme all’Allegoria della pittura, che ritrae un artista vestito con delle singolari calze rosse, che si ritiene sia Vermeer in persona, che dipinge dandoci le spalle.
All’Isabella Stewart Gardner Museum di Boston, una bellissima casa piena zeppa di opere d’arte, davo per scontato che avrei visto Il concerto, ma non sapevo che il dipinto sarebbe stato rubato pochi anni dopo, senza più essere ritrovato. Dalla mia casa di Londra, mentre scrivevo un romanzo su Vermeer, attraversavo a piedi il parco di Hampstead Heath per vedere La suonatrice di chitarra alla Kenwood House, in cerca di ispirazione.
Nella primavera del 1996 avevo visto 24 dei 37 dipinti accessibili al pubblico. A quel punto feci il colpaccio: andai a una retrospettiva su Vermeer allaMauritshuis dell’Aja, dov’erano esposte 23 opere. La mostra aveva un tale successo che ero costretta a guardare i quadri sopra un mare di spalle, ma almeno mi diede la possibilità di spuntare dalla mia lista altri sei Vermeer, incluso quello che si sarebbe rivelato fatale per me, la Ragazza con l’orecchino di perla, che fa parte della collezione della Mauritshuis. Non avevo idea che venti mesi dopo, mentre me ne stavo stesa a letto a guardare il mio poster, improvvisamente mi sarei chiesta: «Che cosa le ha fatto Vermeer per farsi guardare in quel modo?».
Così cominciò la creazione della storia che sarebbe diventata il mio romanzo. Basai la trama sui pochi particolari noti riguardo al dipinto: che Vermeer aveva una grande famiglia, che in varie opere aveva fatto indossare gli abiti di sua moglie a donne diverse, che era lento a dipingere.
Una bella ragazza che indossa un orecchino non suo, posando per mesi in un atelier lontano dalla sua famiglia, con quello sguardo sul viso? La storia si scriveva praticamente da sola. Vent’anni e cinque milioni di copie dopo, sono ancora sbalordita dal successo del libro. Dopo che Vermeer era diventato così popolare, per me è stato facile completare la mia lista di dipinti. Nel 2003, quando il Museo del Prado, a Madrid, mi contattò per fare un evento durante la loro mostra di Vermeer, accettai solo perché c’era esposta la Donna che legge una lettera davanti a una finestra.
Quando mi sono trovata di fronte a quell’ultimo dipinto, ho provato un senso di soddisfazione per aver completato la mia lista, ma anche di lutto per aver raggiunto il mio obiettivo. Che cosa avrei fatto adesso? Dovevo "collezionare" un altro artista? Quale? Fabritius, un contemporaneo di Vermeer?
Troppo facile: ci sono solo otto dipinti. Rembrandt? Troppo difficile: lo adoro, ma ce ne sono più di trecento. Caravaggio?
Novanta e passa: è più fattibile. Ma per questi artisti non ho lo stesso attaccamento che ho per Vermeer. Non ho scritto libri su di loro, non ho parlato sempre di loro negli ultimi vent’anni.
Scegliere di vedere tutti i loro quadri mi sembrerebbe qualcosa di meccanico, di meno soddisfacente sul piano emotivo.
Forse è ora di andare a Petra, invece. Ho prenotato il biglietto.
Fatto.
(Traduzione di Fabio Galimberti)