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 2019  marzo 09 Sabato calendario

In morte di Pino Caruso

Katia Ippaso per il Messaggero
Onestà: è la parola che si moltiplica e si ripete, con suoni e voci diversi, in queste ore che seguono la morte di Pino Caruso. Era una parola che d’altro canto piaceva anche a lui, al celebre attore palermitano che a 84 anni si è spento nella sua casa romana, nella tarda serata di giovedì, dopo una breve malattia. Accanto a lui, la compagna di una vita, la moglie Marilisa Ferzetti, e il figlio Francesco. «Se si scopre che sono onesto, nessuno si fiderà più di me»: nel titolo che aveva voluto dare al suo recente libro di aforismi, si racchiude il senso di una vita vissuta tra teatro, cabaret, televisione, cinema, scrittura. «Era onesto, coerente. Una persona veramente perbene, e soprattutto era attento, avido di cultura e conoscenza», lo ricorda così Leo Gullotta, che lo conobbe nel 1961: «Per l’inaugurazione dello Stabile di Catania, si allestì Questa sera si recita a soggetto di Pirandello. Pino ed io interpretavamo due tenentini. Diventammo amici».
Pirandello è un autore che ritorna nella vita di quest’artista rigoroso, profondamente insulare. Nel 1957 Caruso debutta sul palcoscenico del Piccolo di Palermo con Il gioco delle parti. Ed è ancora una volta un testo del grande drammaturgo siciliano a suggellare l’ultimo spettacolo della sua carriera, Non si sa come (Teatro Biondo di Palermo, 2015), dove Caruso immaginò che Pirandello fosse stato un paziente di Freud e che questi, a sua volta, finisse la sua esistenza come personaggio pirandelliano. «Caruso è stato un vero intellettuale» dichiara oggi Pippo Baudo. E pensare che Pino aveva solo la licenza elementare: «La mia famiglia era povera, ma così povera, che nella scala sociale, dopo di noi, venivano solo gli animali da cortile. Ed è a causa della povertà che mi fermo alle scuole elementari. La cultura, si sa, costa, mentre l’ignoranza è gratis (ecco perché è così diffusa!)» si legge nelle note autobiografiche con le quali accompagnava tutti i suoi spettacoli.
Negli Anni ’60, Caruso si trasferisce a Roma e approda subito al Bagaglino. A Milano, al Teatro Nuovo diventa un assoluto protagonista con Pane al pino e Pino al pino di Castellacci e Pingitore. La popolarità televisiva arriva contemporaneamente, con il programma Che domenica, amici di Castellano e Pipolo. È il 1968. Nel 1975, la sua ballata satirica sulla mafia, Venga a prendere un caffè da noi, fa decollare Mazzabubù su Rai1. Segue un successo dopo l’altro. Nel 1977 dirige se stesso nel film a episodi Ride bene chi ride ultimo ed è protagonista di Caruso al cabaret. Al fianco di Ornella Vanoni con Due di noi nel 1980, compagno di scena di Milva in Palcoscenico, regia di Antonello Falqui l’anno successivo, nel 1982 è mattatore assoluto in Che si beve stasera? su RaiDue. Al cinema, è stato diretto da Camillo Mastrocinque, Salvatore Sampieri, Luigi Comencini, Nanny Loy. Dal 2002 al 2003 è tra i protagonisti della serie Carabinieri per Canale 5. Dopo aver preso parte al film di Ficarra e Picone, La matassa (del 2009), bisogna aspettare il 2016 per rivederlo al cinema: Abbraccialo per me di Vittorio Sindoni.
Pino Caruso ha fatto della sua sicilianità una cifra espressiva, declinata nelle tante forme della comicità e del dramma. Da perfetto ragionatore pirandelliano, ha cercato sempre di comprendere i fatti paradossali della vita. Nella sua Palermo, nel 1995 rilanciò lo storico Festino di Santa Rosalia, invitando negli anni star come Dario Fo e Sakamoto. Ed è così che il sindaco Leoluca Orlando vuole oggi ricordarlo: «Palermo perde un concittadino straordinario, un uomo, un artista che ha contribuito alla rinascita della città, con la sua cultura, la sua ironia, la sua sagacia. Proprio negli anni della rinascita, dopo le terribili stragi del 92, contribuì con la sua forza e le sue idee a dare speranza ai palermitani e alla città».


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Sebastiano Messina per la Repubblica
L’argutissima comicità di Pino Caruso era un condensato di quell’ironia amara e tagliente che è nel patrimonio genetico dei siciliani, condita però con una vena surreale che la rendeva assolutamente originale. Lui prendeva una storia tragica (l’assassinio in carcere di Gaspare Pisciotta con un espresso al veleno) e ne tirava fuori il personaggio di uno dei suoi più celebri sketch, quello che si apriva con il ritornello “Venga a prendere il caffè da noi/ Ucciardone cella 36” e si concludeva con una battuta che nell’Italia degli anni Settanta diventò presto un tormentone: “Il silenzio è d’oro, il cucchiaino è d’argento, (pausa), il pallettone è di piombo”.
Anche se lui amava definirsi «autodidatta», il suo è stato un umorismo garbato e raffinato — mai una battuta volgare, mai un ammiccamento al pecoreccio — intessuto di aforismi da teatro dell’assurdo («Se si scopre che sono onesto nessuno si fiderà più di me») che avevano sempre un risvolto in quella quotidianità che lui combatteva. Per esempio l’ottusità della burocrazia, che rappresentò magnificamente nella scena in cui il diligentissimo impiegato dell’anagrafe si rifiutava di dargli un certificato perché lui, al computer, risultava inequivocabilmente morto da dieci anni. Di quegli aforismi, ne aveva ormai una collezione, e credo di sapere quale leggerebbe oggi a chi lo piange e già lo rimpiange: «Non voglio dir male dell’esistenza, ma una cosa è certa: non se ne esce vivi».