La Stampa, 8 marzo 2019
Intervista al Dalai Lama
Sua Santità Tenzin Gyatso, il XIV Dalai Lama del Tibet vive a McLeod Ganj a 2100 metri sul livello del mare, poco sopra Dharamsala, nella regione indiana dell’Himachal Pradesh. La «capitale» della diaspora tibetana dista soltanto 200 chilometri in linea d’aria dal Tibet, anche se ciò che separa il Dalai Lama dalla propria terra non è la catena montuosa più alta del Pianeta - l’Himalaya -, ma 60 anni ininterrotti di esilio. Di questo e altro, il Dalai Lama parla con La Stampa in una mattina di marzo ancora innevata, dopo aver dato udienza, come ogni giorno, a centinaia di fedeli che dalle regioni più remote dell’India, del Tibet e della Cina giungono fin qui per ascoltare parole di conforto, un consiglio, una benedizione.
Ogni tanto si leggono notizie contraddittorie sul suo stato di salute. Come sta?
«Bene, molto bene.Talvolta provo stanchezza quando sono impegnato in lunghi insegnamenti religiosi e viaggio ancora molto in India e nel resto del mondo. Ma non posso lamentarmi. Nessun problema».
Esattamente sessant’anni fa dovette fuggire da Lhasa, lasciare il Tibet per trovare rifugio in India. Come si sente a vivere in esilio per cosi tanto tempo?
«Sessant’anni fa dovetti abbandonare il Tibet in seguito agli eventi tragici che sono noti a tutti. Sono un rifugiato da tanto tempo e cerco di apprezzare la mia nuova condizione di vita. In questi anni da “rifugiato” ho avuto però molte opportunità di lavorare per aumentare l’armonia fra le religioni e di poter condividere con milioni di esseri umani l’originalità della cultura buddista tibetana e del nostro pensiero filosofico. Se fossi rimasto in Tibet, queste opportunità mi sarebbero state precluse. L’India ci ha accolti ed è un Paese libero. Grazie a questa libertà mi è stato possibile far conoscere il Tibet, la sua cultura e la sua storia, avviare un dialogo con molti scienziati sui temi della neuroscienza, condividere la tradizione buddista tibetana, ma non solo le preghiere o le tecniche di meditazione, ma soprattutto il suo impianto filosofico. E ovunque io vada nessuno si rivolge a me come il “Dalai Lama della Cina”, ma come il Dalai Lama del Tibet».
E quindi l’India la sua nuova casa?
«È un Paese libero, una grande democrazia e se è vero che siamo venuti qui “fisicamente” come rifugiati, è qui che si trovano le nostre radici ed è qui che il Buddha ha iniziato i propri insegnamenti».
Quest’anno non è solo il 60mo anniversario del suo esilio ma anche il 30mo anniversario delle proteste studentesche di Tienanmen. Quanto è cambiata la Cina in questi anni?
«La Cina moderna è stata caratterizzata da quattro stagioni e da quattro leader: Mao Tse Tung; Deng Xiao Ping; Hu Jintao e infine Xi Jinping. Anche se in tutte queste quattro fasi della vita della Cina c’è sempre stato un sistema dominato dallo stesso Partito comunista, molte cose sono cambiate. Deng Xiao Ping aprì la Cina al mondo e contribuì in modo radicale al cambiamento delle condizioni economiche del Paese promuovendo un grande sviluppo; Jang Zemin fece ulteriori riforme aprendo il Partito comunista agli intellettuali e agli imprenditori; Hu Jintao proseguì il cammino iniziato senza particolari innovazioni. Ed oggi abbiamo la nuova leadership di Xi Jinping, ma per il Tibet non è cambiato molto… Però in Cina qualcosa sta cambiando: Il buddismo, per esempio, sta avendo una rapida e grande diffusione. La Beijing University ha stimato che, solo negli ultimi 5 anni, il numero dei buddisti nel Paese sia passato da 300 a 400 milioni e questo fenomeno ha coinvolto soprattutto la classe media e la fascia più istruita della popolazione. Molti di questi buddisti considerano la tradizione tibetana come la più autentica e questo è uno sviluppo molto positivo».
E qual è l’atteggiamento della Cina nei confronti del Tibet?
«Storicamente il Tibet non ha mai fatto parte della Cina e molti testi storici cinesi lo riconoscono. Dalla dinastia Tang, fino a quella Manchu esistevano tre imperi distinti: quello cinese, quello mongolo e quello tibetano. La storia è la storia. Ma nonostante ciò, dal 1974 abbiamo rinunciato ad ogni richiesta di indipendenza (dalla Cina ndr) e siamo disponibili a negoziare lo status di un Tibet autonomo all’interno della Repubblica Popolare Cinese, a condizione che la Cina riconosca ai tibetani i loro diritti fondamentali: professare la propria religione, tenere in vita la lingua e la cultura tibetana, preservare il proprio stile di vita. Siamo sempre disponibili al dialogo e siamo aperti a soluzioni politiche condivise anche se a Pechino continuano a definirmi un “separatista”… Molti intellettuali in Cina e anche diversi membri del Partito comunista sono disponibili al dialogo con il Tibet. Le cose stanno cambiando, ma non sono in grado di valutare quanto grandi saranno questi cambiamenti in Cina nel prossimo futuro».
Qual è oggi la situazione a Lhasa e nel resto del Tibet?
«Non c’è dubbio che vi sia stato in questi anni un notevole sviluppo materiale e ciò è certamente positivo, ma in diverse aree della Regione Autonoma Tibetana abbiamo notizie di una forte repressione e di un controllo crescente nei confronti della popolazione. Anche lo studio della lingua tibetana in alcune scuole è vietato o vi sono crescenti restrizioni. E non è solo un problema del Tibet. Guardi cosa sta accadendo nel Sinkiang dove il regime cinese ha promosso una politica di internamento di centinaia di migliaia di uiguri».
Crede che un dialogo con la Cina sia ancora possibile?
«Si certo, è sempre possibile! Fra il 2002 e il 2010 vi sono stati contatti diretti con il governo cinese poi purtroppo il dialogo si è interrotto. Da allora ho però continuato ad avere molti contatti informali con diversi esponenti cinesi (ex dirigenti politici, businessman), che continuo a incontrare in forma privata. Il dialogo va tenuto sempre in vita. Ma come è noto fin dal 2001 ho rinunciato ad ogni ruolo politico ed oggi la comunità tibetana in esilio elegge in modo democratico i propri rappresentanti (Parlamento e governo) e sono elezioni vere, libere, non come quelle in Cina (ride ndr)».
Cosa crede debba fare la comunità internazionale per sostenere la sua richiesta di un nuovo dialogo con la Cina che porti ad una soluzione pacifica della questione tibetana?
«Recentemente il Parlamento del Giappone ha espresso una posizione molto forte sul Tibet e cosi hanno fatto diverse volte il Parlamento europeo e molti Parlamenti nazionali, compreso quello italiano. Il Congresso degli Stati Uniti ha da poco votato una risoluzione per aprire il Tibet ai media internazionali. Apprezzo molto tutto ciò. Fra Cina e Tibet vi è uno scontro fra il potere della verità e il potere della forza, fino al oggi ha prevalso il secondo, ma sul lungo periodo non potrà che prevalere il primo. La verità avrà la meglio sulla forza. La leadership cinese ha in questi anni optato per una linea di durezza e fermezza nei confronti della questione tibetana: per sessant’anni la popolazione è stata sottoposta a soprusi, terrore, torture, carcerazioni arbitrarie e “lavaggio del cervello”, ma la durezza della repressione ha fallito: le nuove generazioni in Tibet sono sempre più motivate nel conservare la propria cultura e la propria identità. Ora anche fra diversi leader cinesi ci si interroga se non sia giunto il momento di adottare una politica meno repressiva e più realistica in Tibet. Vedremo».
Ambiente e riscaldamento globale sono un tema che ricorre spesso nelle sue riflessioni. Perché?
«Fin da quando ho rinunciato ad ogni responsabilità politica, la questione ambientale è stata per me una priorità. Uno scienziato cinese ha recentemente descritto l’altopiano tibetano come il “Terzo Polo” del Pianeta, i cui mutamenti possono condizionare il riscaldamento globale quanto il Polo Nord e il Polo Sud. Il Tibet è un ecosistema estremamente delicato: l’altezza molto elevata, il poco ossigeno e il clima molto secco fanno sì che ogni mutamento indotto dall’uomo renda necessario un tempo molto lungo per riparare eventuali danni. Tutti i grandi fiumi dell’Asia (il Mekong, lo Yangtze, il Gange, l’Indo e il Brahmaputra) nascono in Tibet e le sue acque portano la vita a 3 miliardi di esseri umani. Per questo motivo l’ambiente in Tibet va rispettato in modo particolare».
Lei ha un forte interesse nelle neuroscienze e da alcuni anni intrattiene un intenso dialogo con diversi Istituti universitari (Stanford, Mit, ecc). Cosa ci racconta di questo dialogo?
«Le neuroscienze ci permettono di comprendere il fondamento biologico della “compassione”, dimostrando come essa favorisca la neurogenesi, (la formazione di nuovi neuroni, ndr), l’aggressività invece agisce in senso opposto limitando e riducendo lo sviluppo dei circuiti neurali. La compassione rappresenta un’attitudine altamente benefica in grado di inibire i geni dello stress. Con la meditazione si può fare molto e anche condizionare positivamente il proprio cervello, controllando le emozioni, eliminando quelle più distruttive. Credo sia molto importante il dialogo che è iniziato fra monaci buddisti e neuroscienziati: questo sarà uno dei miei impegni principali nei prossimi anni».
Lei ha dedicato molto tempo e impegno al dialogo fra le religioni, ma oggi migliaia di esseri umani vengono ancora uccisi in nome di Dio...
«È molto triste. Quando penso agli scontri fra sciiti e sunniti in Iraq o fra buddisti e musulmani in Birmania o fra cristiani e musulmani in Egitto, credo che tutto ciò sia veramente inconcepibile. Tutte le religioni, nonostante le differenze teologiche e filosofiche, sono portatrici di un messaggio di amore, perdono, tolleranza. Uccidere in nome di Dio è inimmaginabile. Le religioni possono convivere e l’armonia fra le religioni è una sfida fondamentale. Il viaggio di Sua Santità papa Francesco nella penisola arabica è stato molto importante. Questa è la strada giusta da intraprendere».
Per duemila anni gli ebrei in esilio hanno celebrato la Pasqua con il messaggio augurale: «Il prossimo anno a Gerusalemme». Possiamo augurarci di incontrarla il prossimo anno a Lhasa?
«Non so - ride -,noi tibetani siamo sempre molto ottimisti. Ma come ho detto prima, il potere della verità, con il tempo diventerà sempre più forte».