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 2019  marzo 08 Venerdì calendario

Intervista a Ralph Rugoff, curatore della Biennale

A un certo punto, Ralph Rugoff si mette a contare. «Sicuro che ci saranno più donne? Mi viene il dubbio. Ora prendo la lista». Mentre calcola, ride un po’. Poi conferma: sarà la Biennale del sorpasso: 42 artiste presenti a Venezia contro 38 uomini. «È un caso», fa capire il curatore. «Altri tre artisti non si considerano nemmeno appartenenti a un genere preciso». «Non ce ne vantiamo, siamo solo soddisfatti», gli fa eco il presidente Paolo Baratta, introducendo quella che potrebbe essere la sua ultima mostra: il mandato scade quest’anno.
L’edizione numero 58 — dall’11 maggio al 24 novembre; budget: 13 milioni di euro; obiettivo: superare i 620mila visitatori del 2017 — ha tutta l’aria di non volersi chiudere nella luccicante bolla dell’arte contemporanea. Ma di confrontarsi con quello che accade nel mondo. «L’arte non fa politica», tiene a dire Rugoff. Ma poi anticipa alcune slide con opere che dipingono o rimandano a muri, confini, identità sessuali fluide. C’è molta Asia, tra i nomi invitati: tanta Cina, Corea, India, Thailandia. E un’età media decisamente più bassa: la generazione guida è quella a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta. Nessuna superstar, pochi i noti: l’attivista per i nativi Jimmie Durham, americano come il videomaker Christian Marclay, Leone d’oro 2011, la teorica e regista tedesca Hito Steyerl, Tomás Saraceno, l’argentino delle sculture sospese. L’Italia conta appena due presenze, femminili ovviamente: Ludovica Carbotta (1982) e Lara Favaretto (1973). Tutti esporranno sia al Padiglione centrale e ai Giardini che all’Arsenale, in due mostre parallele: Proposition A e B. Nei 90 padiglioni nazionali troveranno posto per la prima volta Algeria, Ghana, Madagascar e Pakistan.
"May You Live in Interesting Times" recita il titolo, citazione del presunto anatema cinese «che tu possa vivere in tempi interessanti», riferito per la prima volta alla fine degli anni Trenta dal parlamentare britannico Sir Austen Chamberlain. Per "interessanti" si intende "terribili, difficili". Quell’imprecazione, in realtà, in Cina non esiste: è un falso storico, una fake news. «Ma si presta bene ai tempi di oggi», spiega serafico Rugoff, newyorchese del 1957, completo blu e camicia chiara senza cravatta. Le signore, a Venezia, apprezzano. A Londra, Mister Biennale dirige la Hayward Gallery, la galleria "nemica" della Tate, ma ora, mentre cita l’Opera aperta di Umberto Eco, sembra più un intellettuale da accademia — ha studiato semiotica — che un uomo alle prese con l’inevitabile star system dell’arte.
Mr Rugoff, dica la verità, scegliendo gli artisti, è stato attento al genere?
«Non scelgo in base alle quote. Però è vero che oggi bisogna farci attenzione. Per tanto tempo le donne sono state sottorappresentate anche nel mondo dell’arte. Oggi da loro arrivano le idee più interessanti. Ma non solo: negli Stati Uniti gli afroamericani sono protagonisti di un nuovo fervore artistico. Questa sarà una Biennale a maggioranza non white, ma non per buonismo: la maggior parte degli abitanti del pianeta vive in Asia».
Il politically correct non è un rischio per il mondo dell’arte?
«Ogni idea inflessibile, ogni ideologia estrema è un pericolo per il mondo della cultura in genere. Come raccontare un unico punto di vista. Alla Biennale non ci sarà nessun artista politically correct. Ma bisogna anche ricordare che il politically correct è la conseguenza di tanti anni di political uncorrectness».
Che Biennale sarà la sua? Lei preferisce non lavorare su un tema stretto.
«Ci saranno oggetti molto belli, nel senso classico del termine: dipinti, sculture, foto, video. Mi interessa arrivare a tutti. Non creare esperienze difficili. La cosa più importante non sarà quello che accade dentro, ma fuori. La mia speranza è che, all’uscita, i visitatori possano vedere le cose in modo differente. Diverse connessioni, regole del mondo totalmente nuove. A questo serve l’arte».
Eppure dice che l’arte non è politica.
«Scegliere lavori che affrontano i temi di genere, di minoranze oppresse, di muri ha delle conseguenze politiche. Ma l’arte politica che propaganda un unico messaggio non fa per me. In tempi di comunicazione frammentata, contro le semplificazioni di certa Rete, la complessità è un valore. L’arte deve far nascere delle domande, più che dare risposte. Mi piace dire che è una negative joy, una gioia negativa che insieme regala piacere e spirito critico».
Un curatore è più un tiranno o un allenatore di artisti?
«Un curatore è qualcuno che si prende cura. Che fa attenzione al modo di esporre le opere d’arte, che fa sì che il pubblico si senta benvenuto, che la mostra sia chiara e apprezzabile dalla più vasta tipologia di persone possibile».
In passato ha definito la Tate Modern di Londra uno "shopping centre". Conferma?
«Confermo. Ma io amo i centri commerciali (ride). La Tate è un ottimo museo. Io alla Hayward Gallery faccio un lavoro diverso. Cambio ogni volta con una mostra. Tutto dipende dall’esperienza che si vuole fare. Molti musei d’arte contemporanea sembrano boutique: è un fatto e va bene così. Le collezioni d’arte contemporanea perdono mordente, rischiano di non parlare più al tempo che viviamo. Intendiamoci: hanno un grande valore storico. Se però dobbiamo cercare la complessità, oggi Rembrandt, Velázquez e Goya catturano di più la mia attenzione.
Sono destinati a durare perché ci parlano e ci parleranno ancora».
Lei preferisce smontare e rimontare le mostre.
«Preferisco provare ogni volta un dialogo con il pubblico. È lui che completa un’opera. Lo dicevano già Eco e Duchamp. Il pubblico vuole essere stupito, stimolato, non vuole tornare a scuola. Dobbiamo essere inclusivi».
Tanta arte contemporanea non lo è.
«Ma l’arte contemporanea non è solo quello che raccontano certi brutti film. Anche il mercato dell’arte non è solo bolle speculative. Dobbiamo dare al pubblico una possibilità di confronto. Dobbiamo accoglierlo. Con la Biennale vorrei ottenere questo».
Tra due mesi l’attenzione del mondo dell’arte sarà tutta su di lei. Fa qualcosa per combattere l’ansia?
«Forse dovrei fare un po’ di yoga per restare in forma. Ma non faccio proprio nulla. Cerco solo di mantenere ben fissa la mia prospettiva»