ItaliaOggi, 8 marzo 2019
Andrea Camilleri è una firma sicura con vista sul Duomo che benpensa ed è inclusiva, ma soltanto nelle periferie
meridionalix
«Chiamatemi Tiresia» e il Teatro Greco di Siracusa vien giù sotto un temporale di urletti da concerto rap. Solo che il rapper in questione ha 95 anni ed è quello che gli inglesi definirebbero a late blossomed tree, un albero fiorito tardi: dopo una vita nelle retrovie della cultura, per la quale aveva tra l’altro curato gli impareggiabili sceneggiati di Maigret con l’immenso Gino Cervi, Andrea Camilleri s’è scatenato a mitraglie di romanzi storici a sfondo localistico oppure sul suo personaggio, quel commissario Montalbano che, vedi caso, di Maigret, di Simenon è terribilmente debitore. E tutti, a nostra volta, gli dobbiamo qualcosa, perché – giù il cappello – quando un personaggio entra nel fatidico immaginario collettivo, non è mai un puro caso.Sennonché Camilleri è osannato, è urlacchiato, è osannato, non per quello che fa, ma per quello che rappresenta: il classico autore formato MicroMega, l’ospite perfetto di Fabio Fazio, lo scrittore preoccupato per le sorti del mondo e dell’Italia. Difatti ci ha dapprima scassato i cabasisi, per un interminabile quarto di secolo, col «reggime» sotto Berlusconi, poi è passato al «reggime» sotto Salvini («gerarca, federale, attento che prima ti acclamano poi ti appendono»), insomma tutto quello che non esala socialismo ottocentesco, per Camilleri è inesorabilmente «reggime».
Esaltato a prescindere e a priori, come altri due fari del pensiero debole postcomunista, sempre un po’ comunista, i cantanti Gaber e «Faber» (De André) in fama di assai presunto anarchismo. Due di quelli più citati che ascoltati, anche perché se non li prendi a piccole dosi rischi di narcotizzarti, e che, complice il mito della prematura scomparsa e rispettive assai agguerrite fondazioni, sono assurti, non s’è capito bene perché, in odor di santità (laica, laica, per carità) e così li recitano in chiesa, li celebrano nelle scuole, vogliono consacrarli nei libri di testo. Anche se, ogni tanto, anche loro scialavano in banalità sconcertanti. Anche se gli scappava di ricalcare il comunicato n. 1 delle Brigate Rosse dopo il rapimento di Moro («Aldo Moro insieme a tutta la Democrazia Cristiana è il responsabile di vent’anni di cancrena italiana», Gaber in Io se fossi Dio: molto facile, molto liceale, no?). E rimane, ormai consegnata all’oblio ma non per questo meno immortale, una formidabile pagina polemica di Enzo Tortora verso il Gaber da 1 milione a sera votato alla svolta marxista (correva l’anno 1970).
Gaber & Faber erano due borghesi, proprietari immobiliari aureolati di anarchia, individualisti snob che potevano inneggiare alla libertà come partecipazione e nessuno si scomponeva. Un po’ come per la celebre canzoncina dallo sfacciato ossimoro, «evviva il comunismo e la libertà». Allo stesso modo, su Camilleri non si va tanto per il sottile, non si sta a soppesare il romanzetto indigesto o l’orazione civile in stile pontificale, «non abbiate paura» (sottinteso: che anche questo «reggime» passerà): basta lui, basta la proiezione formato famiglia consapevole, consumatrice ma con gusto, vista Colosseo o Battistero, che resta umana, che benpensa ed è inclusiva, però appena un po’ fuori, ecco, laggiù, nelle periferie va bene. A quel punto la profezia si autoadempie, la leggenda si autoperpetua, e pendere dalla sigaretta del «Maestro» diventa fatale. Più che il Camilleri, insomma, potè il camillerismo. E chiamatelo Tiresia.