il Giornale, 8 marzo 2019
Nel giardino delle scrittrici nude di Pallavicini
Invecchiando rivaluto sempre di più il Premio Strega, in fondo è utile: ogni anno ti dice in anticipo quali romanzi saranno candidati e dunque non vale la pena di leggere. Così come i Campiello e tutti gli altri. Tranne uno, il Premio Brivio. Inventato da una signora sessantenne, Sara Brivio, scrittrice da sempre ignorata, che dopo aver ricevuto un’eredità miliardaria ha deciso di vendicarsi e istituire un premio per premiare uno scrittore vero, invitando in finale però anche due autori tromboni mediocri da Strega, solo per umiliarli. Tenete conto che al vincitore andranno ben cinquecentomila euro, praticamente la cifra di mezzo Nobel. Come dite, non conoscete il Premio Brivio? Per forza, non avete ancora letto il nuovo romanzo di Piersandro Pallavicini, Nel giardino delle scrittrici nude, edito da Feltrinelli.
Il bello di Piersandro Pallavicini è che di romanzo in romanzo ti stupisce sempre, non si ripete mai. Sarà perché, oltre a essere tra i più eleganti scrittori in circolazione, non è un letterato catatonico, è anche uno scienziato, un chimico, come Primo Levi. Il Primo Levi di oggi, oserei dire, ma non sarei neppure sicuro che il secondo non sarebbe superiore al primo se il primo non fosse stato deportato in un campo di concentramento. In ogni caso, se il grande Primo Levi è intoccabile per via di Auschwitz, consideratelo un Secondo Levi. E però con questo ultimo romanzo anche Pallavicini rischia la deportazione, se non altro dalla combriccola dei letterati che contano. Tipo i Corona, gli Scurati, i Lagioia, i Saviano, e compagnia bella bruttissima.
Nella raffinatezza della scrittura Pallavicini è un nipotino di Alberto Arbasino (a sua volta nipotino di Gadda), e il suo nuovo romanzo è un’avventura irresistibilmente comica, piena di colpi di scena, colto ma non di quella cultura ostentata come sarebbe quella, per dire, di Umberto Eco. Profondo e leggero, ti catapulta nella vicenda di Sara Brivio e delle sue due amiche scrittrici, nel loro progetto destabilizzante per le patrie lettere degli autori viventi italiani, e ne viene fuori una commedia che fa ridere ma anche pensare, e come tutti i libri belli è impossibile raccontarvelo, dovete leggerlo. C’è perfino del sesso molto trasgressivo.
Di certo Pallavicini sarà deportato perché con la sua nonchalance ritrae il mondo letterario italiano per quello che è: un consesso di mediocri e leccaculi. Non per altro l’unità di misura delle qualità di un autore italiano per vincere un premio letterario è il Culèc (mutuato dal Parsec) ovvero «l’unità di misura del servilismo», e della paraculaggine. Pensate a tutti gli autori, sempre gli stessi, che vedete ogni anno sempre nelle stesse trasmissioni, sempre candidati agli stessi premi, sempre invitati agli stessi festival, sempre con libri che non lasceranno traccia nella storia della letteratura. Pensate a Francesco Piccolo, a Paolo Cognetti. Pensate a Antonio Scurati, che si presenta per la terza volta al premio Strega stavolta «per dovere civile», e poi uno per dovere civile non dovrebbe mandarlo a quel paese.
Attraverso l’irresistibile voce della sua eroina, Pallavicini si vendica. E non solo con i viventi, ma rompendo anche qualche vecchia vetrina. Anche con «quegli stramarci del realismo magico», tipo García Márquez e Sepúlveda, tanto amati dai finti colti, ormai anche dalla famosa casalinga di Voghera. E perfino contro il santino dei letterati italiani, Pierpaolo Pasolini, perché Sara Brivio vuole acquistare anche una libreria che venda solo prime edizioni di scrittori importanti e a Pasolini riserverà uno scaffale vuoto, «con un bel cartoncino con scritto sopra: nisba, niente Pasolini». Due palle pure quelli che leggono solo i classici, o peggio solo i russi, Tolstoj, Dostoevskij, Gogol’, «a me hanno sempre fatto scendere la morte nel cuore e per carità, lo so che sono dei giganti della letteratura, sono solo ricca sfondata, non idiota, i russi sono dei grandissimi ma io li detesto». Tana libera tutti.
E a proposito di ricchezza, qui ce n’è tanta, come d’altra parte negli altri romanzi di Pallavicini, a cominciare dall’immancabile Jaguar (in cui girano spesso i suoi protagonisti, e che lo stesso autore possiede). Ci si sposta da un ristorante di lusso all’altro, da una capitale all’altra in alberghi a cinque stelle, ci si libera dal tanfo di bettola dei tanti, troppi autori italiani, perennemente straccioni, insopportabilmente moraleggianti, impegnati con il sociale e che al massimo mangiano pane e salame, mentre Pallavicini, letterariamente parlando, è ostriche e champagne. Un Cristal, possibilmente.