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 2019  marzo 08 Venerdì calendario

Una Pietà in terracotta. È di Michelangelo?

C’è una regola non scritta che conoscono anche gli studenti di Storia dell’Arte del primo anno di Accademia o di Università. Per parlare con cognizione di causa di un’opera, disegno, quadro o scultura che sia, bisogna averla vista con i propri occhi. In caso contrario, ogni giudizio deve essere sospeso e privato di affermazioni definitive. Pertanto, dubbi e convinzioni sull’autografia di questo o quell’autore devono essere comunicate o scritte usando il condizionale, riservandosi di utilizzare eventualmente l’indicativo solo dopo una verifica de visu dell’oggetto del nostro interesse critico. Purtroppo, non ho avuto la possibilità di osservare direttamente la bella statuetta di terracotta – alta circa 30 cm e lunga sui 50 cm, con la testa di Cristo riversa sulle ginocchia della Vergine e un putto accanto – a cui Claudio Crescentini (curatore) e altri illustri autori dedicano un libro uscito, giusto oggi, per la Erreciemme col titolo di Michelangelo e la pietà in terracotta. Studi e documenti, interventi e diagnostica (pagine 176, euro 40,00).
La storia è interessante e, al di là del condividere o meno l’attribuzione, vale la pena di ripercorrerla perché, da una parte, mostra come le apparenze ingannino e, dall’altra, spiega quale debba essere il metodo di ricerca per tentare di giungere alla soluzione di un problema di lettura di un’opera d’arte.
Si deve dunque sapere che nel 2002, nella bottega di un antiquario, un collezionistaacquistò questa statuetta abbandonata in una scatola di cartone. L’aspetto non era per nulla quello odierno, ma era offuscato da quelle che, col restauro, si rivelarono ridipinture, fra cui, emerse la presenza dell’inequivocabile blu di Prussia (colore in uso dal XVIII secolo), del tutto incompatibile con lo stile del manufatto.
Ultimati pulitura e restauro, Giuliana Gardelli, nel 2006, pubblicò uno studio dove avanzava un’attribuzione ad Andrea Bregno, uno dei più importanti scultori del XV secolo. Il riferimento strideva, però, col fatto che, in quanto “marmoraro”, l’artista comasco non aveva, per quanto ne sappiamo, l’abitudine di realizzare bozzetti in terracotta. A contestare l’attribuzione fu Enrico Guidoni, in un saggio postumo del 2008. Lo studioso non solo riferì l’opera a Michelangelo, ma la ritenne il bozzetto di prova per il cardinale francese Jean de Bilhères che avrebbe poi commissionato al giovane Buonarroti la Pietà Vaticana, questa volta sul modello nordico della Vesperbilder. Guidoni la additò quindi come modello per la Pietà di Annibale Carracci conservata a Capodimonte.
Una conferma parrebbe emergere dalla datazione della terracotta da riferirsi, grazie alla termoluminescenza, a un arco di tempo compreso fra il 1473 e il 1496, come pure dalle analisi del composto dell’argilla che rivelarono la presenza di dolomia, una sostanza proveniente dalle Dolomiti, oppure dalle Alpi Apuane. Nel 2010, la Gardelli tornò sull’argomento di nuovo e fece importanti precisazioni, affermando che l’opera non era da considerarsi un bozzetto e che proprio questo manufatto, comunque da assegnare a Bregno, dovette suggerire al cardinale di Saint-Denis, di commissionare a Michelangelo la splendida Pietà Vaticana.
In quello stesso anno Roy Doliner (che è uno degli autori del libro nel quale – a pagina 95 – gli si attribuisce la primazia dell’attribuzione a Michelangelo, anche se poi cita Guidoni) pubblicò un saggio dove, dopo aver visto dal vero la picco- la statua, la riferiva al giovane Buonarroti. Opinione confermata anche in questo saggio che ripercorre le varie tappe delle sue riflessioni precedenti.
Non tutti i confronti, secondo me sono da condividere, come, per esempio, quello con laMadonna della scala di Michelangelo. Tuttavia, quello che non si può negare è la presenza di una statuetta del «Modello della Madonna dalla febbre, et di un Moise di terra cotta et colorito» nell’elenco di richieste che Antonio Basoja, fedelissimo assistente di Michelangelo nell’ultimo scorcio della vita del maestro, stilò per riavere indietro quelle opere che – a sua detta (e certo era così perché il “Moise” lo aveva realizzato lui) – gli spettavano in eredità (pagina 110). Non basta. All’indomani della pubblicazione di un altro suo libro, spiega Doliner, una ricercatrice dell’Università di Londra, di cui non cita qui il nome, invia allo studioso americano i documenti dell’archivio della famiglia Casali di Bologna dai quali risulta la presenza di un modello della Madonna della Febbre di Michelangelo fra i beni di proprietà. L’argomento, nel libro curato da Crescentini, è approfondito da Valentina Martino (pagine 63-91) che riproduce gli inventari i quali dimostrano come il “modello” di Michelangelo influenzò Annibale Carracci e la sua scuola.
La mia opinione? Lo studio è certo ineccepibile. Mi chiedo, però, per quale motivo, se la statuetta era il modello da sottoporre al porporato francese, Michelangelo abbia evitato di rappresentare il “quinto incisivo” che caratterizza, come ho dimostrato, la Pietà Vaticana (si veda il mio: I denti di Michelangelo, Medusa 2014) e – come pubblicherò a breve – anche quella Bandini e di Palestrina. Nessuno degli studiosi si è posto il problema. Questo non vuol dire che sia da rigettare l’autografia.