Il Sole 24 Ore, 8 marzo 2019
Urbani leader dei tartufi
«In questo momento sono a New York: mi ha chiamato la Cornell University, per fare un impianto pilota. Vuole coltivare i tartufi in pieno centro a Manhattan». Ride Olga Urbani, 55 anni, quinta generazione dell’azienda di famiglia, ma non troppo: se hanno chiamato lei, per questo esperimento, è perché la sua impresa detiene il 67% del mercato mondiale dei tartufi. Nel mondo, cioè, due tartufi su tre sono Urbani. E dietro il successo di Urbani c’è una donna. «Per carità, io sono solo una delle dirigenti», si schermisce, come fanno tutte le donne quando si riconosce loro un ruolo. «A fianco a me lavorano i miei cugini, Gianmarco e Carlo, mentre alla guida dell’azienda resta ancora mio zio Bruno», ricorda.
Per conquistare il mondo, la Urbani Tartufi è partita 167 fa anni da Scheggino, un piccolo paese dell’Umbria con meno di 500 anime. Oggi la sede è ancora lì, ma l’azienda si è trasformata in una holding con 13 sedi nel mondo, 300 dipendenti e un fatturato di 60 milioni euro, che solo tre anni fa era di 51 milioni. «L’anno scorso abbiamo lavorato 250 tonnellate di tartufo», ricorda Olga Urbani. Di questi, l’80% è destinato ai mercati esteri: dal Brasile alla Russia, anche se il mercato statunitense da solo per Urbani vale 21 milioni di dollari.
Da dove vengono, i suoi tartufi? «Meno del 10% viene coltivata da noi – racconta Olga Urbani – il resto ci viene conferito». Un terzo proviene dall’Italia, «il resto lo acquistiamo soprattutto dalla Francia e dalla Spagna, che sta diventando molto competitiva perché è stata tra i primi a cominciare la pratica della tartuficoltura». E proprio la coltivazione dei preziosi tuberi è uno dei nuovi rami di business in cui Urbani si è lanciata recentemente: fornisce impianti chiavi in mano per chi vuole mettersi in affari in proprio. Il progetto si chiama TruffleLand e garantisce piante che in 5-8 anni di tempo diventano alberi adatti ad ospitare il tartufo tra le radici. «Un ettaro coltivato a tartufi può rendere fino a 30mila euro all’anno, con un investimento del genere ci esce un dignitoso stipendio. Lo dico continuamente, ai giovani – racconta – invece di lasciare queste terre, investite nella coltivazione del tartufo. Tra l’altro, ci sono parecchi incentivi sia europei che regionali, per chi vuole comprare la terra».
Una delle idee di Olga Urbani è stata realizzare il Museo del Tartufo, annesso alla sede dell’azienda di famiglia e aperto nel 2012. Qui si conserva ancora la lettera di ringraziamento del presidente Ronald Reagan per 1,100 chili di tartufo che i fratelli Bruno e Paolo Urbani gli inviarono.
Un’altra idea è stata quella di spingere sull’allargamento del business nella direzione del lusso accessibile. O per dirla secondo lo slogan di famiglia, «far assaggiare il tartufo almeno una volta nella vita a tutti nel mondo». Per fare questo l’azienda si è inventata circa 700 prodotti, dall’olio tartufato per la pizza congelata ai cioccolatini, fino alle patatine in busta. La virata sul lusso democratico in pochi anni ha portato risultati invidiabili: «Oggi più della metà del nostro fatturato viene da questo ramo di business», ammette Olga Urbani. Che ricorda che cosa l’ha spinta a intraprendere questa scelta: «Il tartufo è come il vino, un anno va meglio e uno va peggio, e poi è un prodotto stagionale. Mi sono chiesta come potevo garantire alla mia impresa un flusso costante di produzione e di introiti, in modo da garantire ogni mese il posto di lavoro ai miei dipendenti».
Nuovo capitale? «Alla nostra famiglia non serve, non cerchiamo investitori», assicura. E non le occorrono nemmeno nuove linee di manager: «Mia nipote Alice ha solo sette anni, ma quando viene in ufficio si mette tra la mia scrivania e quella di suo padre e mi dice: zia, io da grande voglio comandare».