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 2019  marzo 06 Mercoledì calendario

L’Italia da rifare

meridionalix
Divario Nord-Sud, autonomie inefficienti, invecchiamento record. Mai come ora il paese appare privo di direzione. E ininfluente sulla scena globale Per cambiare, dobbiamo ripartire dalle parole di Cavour sull’unità nazionale
L’Italia è il paese dei miracoli, il primo dei quali è sé stessa. Ma i miracoli non si ripetono all’infinito.
Ogni Stato è creazione storica, ha avuto un inizio e avrà una fine. Per la comunità che vi convive e lo sorregge è imperativo dotarsi di una base strategica che ne preservi l’esistenza e il rango internazionale. A questo esercizio Limes dedica il suo nuovo volume e il suo sesto festival (Genova, Palazzo Ducale, da domani al 10 marzo), entrambi intitolati a “Una strategia per l’Italia”.
Di una strategia abbiamo urgenza. Tutti gli indicatori segnalano infatti che siamo su una rotta che, se non corretta, può portarci al naufragio.
Troppo abituati ai miracoli, forse immaginiamo che si riproducano spontaneamente, per benevola intercessione dei santi. Consideriamo invece i seguenti fatti.
Primo, la demografia. Ci sono e ci saranno sempre meno italiani, e saranno sempre più vecchi. Nel 2018 la popolazione è diminuita per il quarto anno consecutivo, fenomeno senza precedenti nella storia nazionale. Come osserva il demografo Massimo Livi Bacci, «la popolazione italiana è sdraiata sul fondo, come un sottomarino che, persa la spinta propulsiva, resta adagiato in avaria sul fondale».
Secondo, l’economia. Questo paese è fermo da vent’anni e si avvia alla terza recessione in dieci anni. Ma come può crescere un paese mentre ne diminuisce la popolazione attiva, la produttività resta piatta, i vincoli di politica fiscale inscritti nella nostra partecipazione all’Eurozona frenano strutturalmente la produzione?
Terzo, il controllo mafioso del territorio. Lo Stato ha scientemente ceduto in comodato d’uso alla criminalità organizzata intere regioni e quartieri delle nostre città, Nord incluso. Con effetti paradossali: la Calabria, regione più povera d’Italia, è in mano alla ’ndrangheta, una delle mafie più ricche e potenti del mondo, ramificata in Europa, nelle Americhe e non solo. Insomma una grande potenza, in mano a poche famiglie, di fatto prevalenti sulle istituzioni locali, di cui hanno fatto scempio e su cui esercitano comunque un controllo certo superiore a quello di Roma.
Quasi tutti i paesi hanno una mafia, ma nessuna democrazia occidentale si è mai sognata di cedere ai capibastone interi pezzi di territorio.
Quarto, conseguente e decisivo, l’unità nazionale.
L’Italia è nata economicamente duale e resta tale. Ma negli ultimi anni la forbice Nord-Sud si sta allargando minacciosamente. Fino ad alimentare strategie autonomistiche che rischiano di mutarsi in separatismo. Ad un Lombardo-Veneto che ritiene di potersi meglio amministrare senza Roma corrispondono le nostalgie neoborboniche del Sud, dal quale i giovani sono in fuga e che nei prossimi trent’anni si stima perderà 5 milioni di abitanti. Desertificazione umana e geopolitica che erode la radice della nazione.
Si può e si deve polemizzare quanto si vuole sui “sovranismi”, ovvero sui vecchi e nuovi nazionalismi, ma senza dimenticare che senza sovranità non c’è Stato.
Si può anche invocare il federalismo, ma nel mondo reale le federazioni che funzionano sono imperniate su un forte potere centrale.
Noi invece ci siamo dilettati a smantellare quel poco che avevamo. Specie con la riforma del titolo V della costituzione, tentativo malriuscito della sinistra di inseguire la Lega sul suo terreno, però molto efficace nel minare solidità e credibilità delle istituzioni. A cominciare dalle stesse Regioni, in qualche caso persino più corrotte e inefficienti delle burocrazie centrali.
Se allarghiamo lo sguardo oltre i confini, ci rendiamo conto di quanto necessaria sia l’Italia unita e di quanto velleitari siano i micronazionalismi che la percorrono. Come affrontare divisi le sfide della disintegrazione europea – nello spazio comunitario vige ormai il motto “ognuno per sé nessuno per tutti” –, della sfida Stati Uniti-Cina che ci tocca direttamente (aderire o meno, e come, alle vie della seta?) e della destabilizzazione permanente della faglia nordafricana, fonte di minacce strutturali alla nostra sicurezza?
Volume e festival di Limes non espongono un ricettario.
Intendono produrre idee, senza tabù politico-ideologici, su come salvare e riportare all’altezza di sé stesso un paese tuttora dotato di invidiabili risorse, che però non si riprodurranno automaticamente. Contro la retorica del Belpaese delle piccole patrie, all’Italia unita serve uno Stato compiuto e ricentrato, dove poteri e responsabilità siano immediatamente visibili e imputabili. Obiettivo impossibile senza una pedagogia nazionale che rinnovi il senso di orgogliosa appartenenza a una nazione che nella percezione altrui vale più di quanto molti italiani siano disposti ad ammettere. Valga la classifica sui “migliori paesi” pubblicata annualmente da U. S. News and World Report sulla base di interviste a 20 mila personalità eminenti in 80 paesi, da cui risultiamo numero uno al mondo quanto a influenza culturale e a patrimonio storico-artistico.
Che cosa resterebbe di questi primati, se ci suicidassimo chiudendoci in improbabili “città Stato”, secondo una moda che sembra aver sedotto financo i sindaci di Napoli e di Milano? Il 29 giugno 1860, Cavour annotava: «Al punto in cui sono le cose in Italia, solo l’unità può garantire alla penisola l’indipendenza e la libertà». Suona attuale.